Ramachandra Guha
AMBIENTALISMI Una storia globale dei movimenti
a cura di Gabriele Mina
editore LINARIA, 2016 (pp245, € 15,00)
Potrà essere di sicura utilità la lettura di questo libro dello storico indiano Ramachandra Guha che l’editrice Linaria propone in italiano e che è ormai un classico per gli studi sull’ambientalismo. Fu pubblicato per la prima volta nel 2000 e quindi a ragione il curatore Gabriele Mina ha predisposto un prezioso aggiornamento dei fatti e della letteratura in appendice.
Ramachandra Guha (1958) vive a Bangalore, è uno storico, scrittore e giornalista. È un’autorità negli studi sull’ambientalismo ed è considerato uno dei saggisti più influenti sia in India sia in campo internazionale. Ha all’attivo decine di saggi e centinaia di articoli, ha scritto su Gandhi, sulla democrazia indiana, sulla storia del cricket. Ha insegnato in numerose università in vari continenti, fra cui Berkeley, Yale, la London School of Economics. Ambientalismi è il primo saggio di Guha a essere pubblicato in Italia.
L’utilità nasce dall’espandersi della preoccupazione per la propria salute tra popolazioni sempre più vaste anche nel nostro paese. L’ambientalismo è stato ritenuto una preoccupazione per ricchi, gente con la pancia piena che si occupa della salvaguardia della natura. Ma questa libro dimostra che così non è e che l’ambientalismo subalterno o dei poveri ha una radicata tradizione ed è quello che meglio coglie la inseparabilità tra natura, ambienti di vita e di lavoro. Anzi diventa sempre più evidente che la pressione ambientale delle attività economiche capitalistiche, producendo una deturpazione ambientale, produce di conseguenza una diseguaglianza che è, con gli effetti dell’inquinamento, la causa prima della perdita di salute. E’, mutatis mutandis, la perdita di salute come perdita di partecipazione, concetto sviluppato da Giulio Maccacaro negli anni ’70 in riferimento alla salute in fabbrica. A fronte di un significativo proliferare di ricerche sulle storie nazionali del movimento ambientalista, Guha riesce a proporre una storia transnazionale seguendo le piste che hanno legato movimenti, idee, singoli individui.
Sulla necessità di cogliere il nesso tra salute, ambiente e diseguaglianza si dilunga la bella postfazione di Marco Armenio.Marco Armiero è il direttore dell’Environmental Humanities Laboratorydel KTH Royal Institute of Technology a Stoccolma.
“La storia ambientale (Worster 2014) ha raccontato come soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale sia maturata una separazione tra spazi dell’abitare e del lavoro e spazi della natura e della ricreazione; l’ambientalismo nasceva proprio dall’esigenza di salvaguardare quello che restava di incontaminato in un mondo profondamente segnato dal lavoro umano. Oggi la fortunata nozione di Antropocene (McNeill 2014), secondo la quale siamo entrati in un’era geologica nella quale gli umani sono in grado di manipolare l’intero pianeta, lascia aperta la questione del conflitto, ovvero resta muta sul tema delle responsabilità storiche e delle ineguaglianze sociali della crisi ecologica contemporanea. Insomma il pianeta è plasmato dalla azione umana ma parlare di responsabilità di specie nasconde che qualcuno paga o pagherà il conto del benessere altrui. “
“L’environmental justice movement (EJM) non è particolarmente noto in Italia sia dal punto di vista storico che teorico; in altri termini si conosce poco della sua vicenda e anche delle innovazioni teoriche che ha introdotto. È evidente che la società italiana non presenta la stratificazione etnica che pervade tutti gli aspetti della storia americana. In questo senso sarebbe inappropriato cercare di applicare in modo rigido il modello dell’EJM al nostro paese, anche se credo che ci sia stata in Italia una razzializzazione della classe e che taluni comportamenti coloniali delle imprese del Nord Italia che hanno sversato al Sud potrebbero essere compresi meglio applicando le categorie dei racial studies. D’altro canto sono anche tante le caratteristiche che avvicinano il caso italiano a un modello più generale di EJM (Armiero 2013c). In queste lotte socio-ambientali la difesa della natura ha coinciso con la difesa della salute o della stessa sopravvivenza dei soggetti interessati, dando vita a un ambientalismo originale che spesso non si definisce tale; la domanda di giustizia sollevata da questi movimenti travalica il principio di compensazione; il rapporto con il sapere scientifico – per meglio dire con gli esperti ufficiali – sembra essere più conflittuale di come viene in genere rappresentata la relazione tra ecologia scientifica ed ecologia politica.”
Sono meno daccordo con Armenio, dichiarndo in anticipo la mia incompetenza, con l’importanza decisiva di un ambientalismo operaio. Esso di certo non c’è stato a Taranto, mentre in contesti come Porto Marghera e Manfredonia le preziose denunce di alcuni operai, per lo più figure eroiche ed emarginate dal resto dei lavoratori, sono avvenute a “babbo morto” quando cioè le produzioni erano cessate o davano chiari segni di agonia.
Importante anche il ribaltamento che Armenio fa della sindrome NIMBY. “Praticamente tutte le esperienze di lotta socio-ambientale alle quali faccio riferimento sono state liquidate come sindrome NIMBY. Non credo che sia questa la sede per una analisi approfondita del concetto di NIMBY; in varie occasioni ho provato a spiegare come a mio parere quel concetto sia stato utilizzato in maniera strumentale per colpire e screditare molte comunità resistenti. Per altro più di chi resiste, la sindrome NIMBY mi pare tipica di chi inquina o impone infrastrutture che non vuole sul suo territorio, per- ché i ricchi di giardini ne hanno davvero.”
Non trascura Armenio la questione delle conoscenze scientifiche ricordando quanto difficile sia per i movimenti contrapporre dati e analisi in carenza o in difficoltà di accesso a dati sanitari che pure sono pubblici. “È grazie all’attivismo di quei comitati che oggi l’attenzione dell’opinione pubblica è finalmente passata dalla questione dei rifiuti solidi urbani alla ben più complessa vicenda dei rifiuti tossici che chiama in causa l’intero sistema produttivo e di controllo del paese. Nel caso campano si ripropongono i tipici dilemmi dell’EJM, primo fra tutti la difficoltà di provare i rapporti di causa-effetto tra esposizione a sostanze tossiche e malattie con la pletora di esperti mainstream pronti a sostenere le ragioni dei forti cui si contrappone la produzione di saperi dal basso grazie all’aiuto di scienziati vicini ai movimenti (Armiero 2014).”