Mi ha fatto molto pensare un articolo uscito recentemente su Le Monde Diplomatique, edizione italiana.1 In realtà mi ha fatto sentire cretino. La storia è questa. Fino agli anni ‘30 del secolo scorso, negli USA (ma anche in Italia; ricordi di fanciullezza, anni ‘50), quando si acquistava una bevanda, latte, birra, coca-cola, vigeva il sistema del vuoto a rendere: portavi al distributore una bottiglia vuota e ne acquistavi una piena. I vuoti erano rispediti al produttore che li sottoponeva a lavaggio per poi riutilizzarli. Il sistema funzionava benissimo e gli scarti erano ridotti al minimo.

Ma alla fine del proibizionismo, con il ritorno sul mercato della birra, gli industriali inventarono la lattina usa e getta. In questo modo eliminavano i costi del riciclaggio delle bottiglie in vetro, trasporto compreso. Riuscivano anche a concentrare la produzione; grandi fabbriche, economie di scala, spedizione delle bevande a grandi distanze. Contemporaneamente, però, aumentavano i rifiuti. Per un paio di decenni non fu un problema, ma quando negli anni ’50 anche le bibite gassate passarono alla lattina (e, più tardi, latte ed altri liquidi passarono al tetrapak), i rifiuti cominciarono a riempire cortili, strade, canali di scolo, rive dei fiumi, aree da picnic e, qualche anno dopo, discariche a cielo aperto.

Catena televisiva USA, 1971. Una mano si sporge dal finestrino di un’automobile e lancia un sacchetto che si rompe sul ciglio della strada, I rifiuti si spargono ai piedi, calzati di mocassini, di un maestoso nativo con piume d’ordinanza. Il pellerossa guarda nella telecamera, lacrime agli occhi, mentre una voce fuori campo dice: “L’inquinamento inizia dalle persone. Sono le persone a potervi mettere fine”. La scritta che conclude lo spot recita: “Keep America beautiful” (Mantieni bella l’America). Sembra uno slogan ecologico, ma in realtà si tratta di una ONG per la difesa dell’ambiente creata nel 1953 da un consorzio di industriali delle bevande e degli imballaggi capeggiato da CocaCola, produttrice di contenuti, e dalla American Can Company, produttrice di contenitori. Sempre nel 1953, poco prima della creazione della ONG, il Vermont aveva approvato una legge che obbligava a tornare al sistema del vuoto a rendere, al fine di liberare strade e boschi da cumuli di rifiuti. Keep America beautiful fu fondata per “evitare che questa legge costituisse un precedente in grado, un giorno, di danneggiare l’industria”. Altri stati USA, a cominciare dall’Oregon cercarono di adottare leggi simili a quella del Vermont, esasperando gli industriali.

“Dobbiamo lottare con tutti i mezzi contro i referendum sulle bottiglie organizzati quest’anno nel Maine, nel Massachusetts, nel Michigan e nel Colorado: i comunisti, o gente con idee comuniste, cercano di far prendere a questi stati la stessa strada dell’Oregon”, scriveva fuori di sé William May nel 1971, nel suo doppio incarico di direttore dell’American Can Company e di presidente di Keep America beautiful.

Obiettivo delle campagne pubblicitarie di Keep America beautiful era ribaltare la narrativa sulla responsabilità dei rifiuti. La colpa non era più dell’industria, era del consumatore che, con la sua condotta deviante, riempiva il pianeta di lattine e di altre schifezze. La soluzione era rieducare il consumatore: la diffusione di buone pratiche individuali avrebbe risolto il problema.

Il passo successivo fu convincere i governi locali (il primo progetto pilota di riciclaggio fu realizzato a Los Angeles nel 1970 a cura del consorzio dei produttori di contenitori in vetro), nazionali e globali, e tutti i rispettivi cittadini, a prendersi la responsabilità della raccolta differenziata dei rifiuti, pagandone ovviamente i costi. In questo modo l’industria, e non solo quella delle bevande, ha potuto continuare, e continua tuttora, a usare imballaggi inquinanti, che tanto ci pensiamo noi a separare vetro, carta e lattine, infilando i rifiuti negli appositi contenitori per avviarli al riciclaggio. Cosa che continuo a fare ogni giorno. Ma d’ora in poi sentendomi cretino. Perché alla fin fine contribuisco a finanziare il sistema del riciclaggio degli imballaggi, permettendo all’industria di continuare a inquinare senza assumersene i costi.

Ancora più cretino mi sento se penso che il sistema di pubbliche relazioni dell’industria, Big Pharma compresa, riesce a incanalare legittime aspirazioni al cambiamento in azioni inoffensive. Basta convincere chi si oppone ad affaccendarsi in qualcosa di utile, purché sia privo di effetti politici. Si tratta di un “neoliberismo etico”, fatto di buone azioni solitarie che non devono incidere sui meccanismi del profitto e dell’accumulazione, di micro-virtù che non sono in grado di scalfire i macro-vizi del sistema. Quante delle azioni che proponiamo per una medicina buona e giusta rientrano nel neoliberismo etico?

Adriano Cattaneo, NoGrazie, Lettera n. 68, marzo 2019

1 Chamayou G. E adesso, riciclate. Le Monde Diplomatique, Febbraio 2019, pagina 3.