di Vito Totire*

Non vogliamo “mettere il naso” nelle relazioni sindacali ma il problema del distress lavorativo riguarda tutti e si ripercuote nel sociale. Oltretutto da un lato noi “comuni mortali” vorremmo capire meglio, dall’altro alto come potenziali consumatori Ikea ci riserviamo di decidere se continuare a acquistare lì o no. Ora: siamo contrari al lavoro nei giorni festivi; riteniamo che esso sia fonte di distress e di deprivazione sociale.

Siamo favorevoli al lavoro festivo solo per ragioni di pubblica necessità; nel modello (universalmente riconosciuto) di valutazione del distress secondo Karasek ad un aumento del carico di lavoro occorre far corrispondere un aumento della autonomia e/o un aumento della “ricompensa”; l’aumento della retribuzione del 20% per il lavoro festivo è inadeguato e comunque l’aumento non può e non deve essere legato alla crescita del fatturato; mettiamoci nei panni di chi viene obbligato al lavoro festivo: deve sperare che ci sia un afflusso di clienti? E’ il modello capitalistico/giapponese, negativo per la psiche umana; il lavoratore viene spinto ad identificarsi con la “sua “ azienda…

Secondo una proposta di sociologi e psicologi, anche solo il fardello di 2 ore quotidiane di tempo per il trasporto casa/lavoro “merita” una retribuzione del 30% in più; ovviamente non se ne è fatto nulla anche se la proposta, nella sua provocatorietà è utile per spingere alla razionalizzazione dei percorsi e delle sedi aziendali ed a stimolare il mitico “telelavoro”, ove possibile…

Il fatto che a livello nazionale il 75 % dei lavoratori abbia votato a favore dei contenuti dell’accordo non abbassa il tasso di costrittività per chi l’accordo non lo condivide ma è dubbio che la adesione del 75% sia stata davvero spontanea in relazione al “clima” attuale di paura per la perdita del posto di lavoro; come dire : meglio che il datore di lavoro si chiami Ikea che non Saeco… a nostro modesto parere chi ha votato contro è più lungimirante e magari può contare su minori ammortizzatori sociali; vada come vada : col 75 % di adesioni “col cuccio” come si dice a Bologna, e il 25 % dei contrari, alla fine il numero dei lavoratori insoddisfatti del proprio lavoro cresce.

Riteniamo che, ammesso sia stata fatta , a tutt’oggi, una valutazione attendibile del distress lavorativo entro Ikea sicuramente merita di essere aggiornata, tra un po’ per monitorare gli eventi, per evitare che tutto passi in cavalleria e che , come dice la Unione europea, continui ad affermarsi il sistema della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite.

Non paga nessuno con la eccezione forse di una grande azienda (non è Ikea) che (magnanimamente) fornisce la assistenza psichiatrica gratuita piuttosto che prevenire il distress e le costrittività organizzative…

Mentre lo slogan fondante della riforma sanitaria era (è) “meglio prevenire che curare”, qui la linea è” meglio psichiatrizzare che prevenire”. Infatti le conseguenze del distress lavorativo, al momento, non le “paga “ nessuno, nemmeno l’Inail che non riconosce mai gli infarti come malattia professionale correlata al distress ma solo come infortunio acuto… E se in un gruppo di lavoratori, cresciuta la costrittività aumenta il consumo di tranquillanti o di sigarette? Meglio aumenta il PIL e la vicina (vicina a Casalecchio) fabbrica di sigarette assume qualcuno in più… Vorremmo meno distress occupazionale e più benessere per tutti; il contratto Ikea non va in questa direzione.

*Medico del lavoro/psichiatra , Coordinatore Centro studi per il benessere lavorativo, Via Polese 30 40122 Bologna