La signora Barbara Leuzzi con una lettera alla Repubblica (8.02.2019)* ha posto due problemi rilevanti che agiscono in sinergia negativa l’uno rispetto all’altro: quello delle cure lontano da casa e quello del diritto al lavoro.

Sul primo sono sorpreso; un mio zio per una coronarografia a metà degli anni ottanta dovette andare da Bari a  Bergamo; però, davvero,  pensavo che la situazione in Puglia fosse migliorata; peraltro deduco -dalle informazioni raccolte dopo quella lettera – che la vicenda della signora Barbara non sia  isolata;  credo che la sanità pubblica e i decisori politici pugliesi debbano interrogarsi su questi “viaggi della speranza” che , molti di noi si illudevano fossero solo ricordi del passato; occorre valutare l’entità e le ragioni del fenomeno ed assumere iniziative urgenti per evitare ulteriori fatiche e distress alle persone malate e ai loro familiari.

L’altra questione è il diritto al lavoro per chi è nelle condizioni di iscriversi alla lista per il collocamento obbligatorio; la situazione nelle varie province italiane è variegata ma tendenzialmente negativa quasi ovunque; tempo fa ho interrogato una banca dati della provincia di Bologna; risultato: 500 posti vacanti ai sensi della legge 68/1999; al Sud pare che la situazione sia sempre stata peggiore che al  Nord, per le ragioni storiche che conosciamo; ricordo molti cittadini della Campania, della Sicilia, del Mezzogiorno in genere, che si “iscrivevano” a casa loro ma anche a Bologna (era o forse è ancora possibile iscriversi in due province); il fenomeno dei posti vacanti in Italia è gravissimo quanto trascurato; l’origine del fenomeno è complessa ma, fondamentalmente, attiene alla pigrizia mentale di certe organizzazioni lavorative che pur di non mettersi in discussione dal punto di vista della accoglienza delle persone diversamente abili (che pure grazie a percorsi di inserimento mirato possono garantire livelli di produttività persino superiori alla media) preferiscono “escludere” piuttosto che integrare; certo la legge 68/1999 ha un grave limite di fondo (la chiamata solo nominativa per i lavoratori con diagnosi psichiatrica) ma un buon approccio in termini di ergonomia e di “riabilitazione industriale” potrebbe dare risultati enormi che in Italia non sono affatto sconosciuti a cominciare dalla esperienza storica di Montobbio e della sua èquipe  a Genova, al recente inserimento di due persone con diagnosi di sindrome di Asperger a Bologna (peraltro nel difficile settore della sicurezza ferroviaria, comparto in cui i due lavoratori citati hanno dimostrato performances eccezionalmente positive).

Anche in Puglia non sono mancati eventi esemplari paragonabili; e allora per dare una risposta alla signora Barbara Leuzzi – che dobbiamo ringraziare per la sua lettera – e che al momento deve sopportare un pendolarismo coatto associato ad uno stato di disoccupazione evitabile, occorrerebbero due elementi.

Una regia sanitaria pubblica per gestire gli inserimenti mirati evitando di lasciarli alla discutibile, occasionale e “spartana” selezione da parte delle aziende, peraltro in un mare di posti lasciati vacanti; sia il servizio pubblico a proporre la “combinazione” del posto giusto per la persona giusta; solo il servizio pubblico può gestire felicemente la strategia che consiste di adattare la scarpa (la organizzazione del lavoro) al piede (il lavoratore) e non viceversa.

Il secondo elemento: come far emergere meglio i posti vacanti? Occorre denunciare il fatto che per tenerli vacanti molte aziende preferiscono pagare una tassa invece che assumere le persone aventi diritto; sia detto per inciso, spesso i soldi di questa “tassa sul posto vacante” , quindi penosa “tassa sulla disoccupazione del diversamente abile”, non si sa bene dove finiscano; allora questi posti vacanti:  perché non pubblicarli periodicamente sui quotidiani locali con preghiera alle aziende responsabili di “spiegare” la loro politica di disoccupazione ai danni delle persone più svantaggiate?

Questi dati sono accessibili presso gli uffici del lavoro, rendiamoli pubblici nella speranza di gettare un sasso in una situazione vergognosamente stagnante e negativa per i diritti di persone che rischiano ulteriori spinte verso la marginalità?

Vito Totire, medico del lavoro/psichiatra

Bologna, 13 febbraio 2019 

*Il mio cuore batte per un lavoro. Elisabetta Leuzzi, Lecce

Sono una mamma di due meravigliose bambine. Durante la seconda gravidanza mi è stata riscontrata una grave patologia cardiaca. Vivo a Lecce ma mi curano a Milano. Da quando affronto la nuova vita, non lavoro più. Non perché non ne sia capace (ho energia da spaccare il mondo) ma perché in pochi attingono alle “categorie protette”. Ogni giorno mi reco all’ufficio di collocamento, al patronato, ma niente. Vivo con un compagno insegnante. Ciò che guadagna lui e la mia pensione di 280 euro vanno via per i viaggi a Milano. Non progettiamo più il futuro. Ho creduto nel reddito di cittadinanza, ma il nostro Isee supera di pochi euro gli standard. Non voglio nulla di ciò che non mi spetta, desidero solo vivere oltre alla malattia. Al collocamento mi dicono che vengono prima quelli più gravi di me. E ora le aziende preferiranno assumere con il reddito di cittadinanza, trasferito a loro. Continuerò a lottare. Per le mie figlie e per me. Per il diritto al lavoro. Per un reddito (per curarmi) e una cittadinanza (per l’orgoglio di essere italiana).

La Repubblica, 08.02.2019, pag 30 In Repubblica. Lettere