Nonostante il 40esimo compleanno del SSN, il servizio pubblico non è ai primi punti dell’agenda politica e neppure sindacale da diversi anni se non per farlo bersaglio dei tagli di spesa con i quali si vorrebbe (senza riuscirci) ridurre il debito pubblico. Per far questo si cerca di oscurare il valore ed i risultati in termini di salute e di benessere del nostro SSN per favorire un ritorno alle vecchie e costose mutue che oggi si avanzano sotto le sembianze delle assicurazioni private e del welfare aziendale. “E’ tutta salute – In difesa della sanità pubblica” (Ed Gruppo Abele, pp 128 Torino € 13,00) di Nerina Dirindin è un utile endorsement alla sanità pubblica ed universalistica come la volle la legge 833 del 1978. L’autrice è docente di Scienze delle finanze e organizzazione dei sistemi di welfare all’Università di Torino con esperienza di direzione generale del Ministero della Salute, Assessore alla Salute della Regione Sardegna e Senatrice della Repubblica (eletta nel PD poi art1). I temi toccati sono numerosi, quasi tutti quelli in gioco nelle difficoltà della sanità oggi. Si accennerà ad alcuni di quelli trattati e ad un paio secondo noi mancanti.

In difesa della sanità pubblica

Per far ricomprendere l’utilità di un SSN pubblico si deve compiere una rivoluzione culturale, quella per cui è meglio vivere in una società che si occupa di chi sta peggio. L’esperimento concettuale di John Rawls del velo dell’ignoranza potrebbe aiutare a comprendere che una simile società conviene alla maggioranza dei cittadini; “se gli individui non conoscessero la posizione in cui si trovano (o potrebbero venirsi a trovare) si esprimerebbero a favore di una società ispirata al principio del più debole, ovvero che adotta ogni azione in grado di migliorare la posizione di colui che sta peggio (o di coloro che vivono in condizioni svantaggiate)”.

Ora i consumi sanitari si concentrano su una piccola percentuale di persone, il 5% assorbe il 50% della spesa, mentre il 50% dei cittadini consuma il 3% della spesa sanitaria. Con ciò si intende dire che ci sono costi che neppure i ricchi da soli potrebbero sopportare, mente se tutti finanziamo in proporzione al reddito il SSN, tutti ne potremmo avere bisogno in momenti di difficoltà che richiedono risposte estremamente costose (trapianti, grandi interventi chirurgici, lunghe riabilitazioni, ecc.). Un sistema poggiato sulle assicurazioni non potrebbe garantire da solo neppure le cure più costose ai soli ricchi. L’idea che i ricchi si potrebbero curare senza partecipare al finanziamento del SSN è uno degli argomenti più ricorrenti quanto infondati sostenuti dai detrattori del SSN.

Il welfare aziendale: un’erosione del finanziamento pubblico

I sindacati dei lavoratori hanno accettato negli ultimi anni che nei contratti vi fossero decurtazioni a quella parte di reddito destinata al welfare per consentire piccoli rimborsi di spese sanitarie, a volte integrative a volte sostitutive di quelle già fornite dal SSN. E ciò con una riduzione del costo del lavoro, un minimo beneficio per i lavoratori, una riduzione del finanziamento del SSN ed un guadagno per le assicurazioni private. Questo “marchingegno” depotenzia il finanziamento del SSN. Un altro argomento usato da chi ritiene chiusa (o da chiudere) l’esperienza del SSN pubblico è l’impossibilità di fornire “tutto a tutti” e ciò soprattutto a causa dell’invecchiamento della popolazione. L’assistenza socio-sanitaria degli anziani deve essere invece oggetto di una particolare attenzione. L’invecchiamento della popolazione non è un nemico delle politiche sociali e sanitarie ma è il frutto di anni di cure per tutti. Anche qui però è necessario uno sforzo culturale importante: rifiutare la cultura dello scarto e valorizzare gli operatori che si dedicano all’assistenza socio-sanitaria territoriale sinora considerati di “SERIE-B” anche nella comunicazione istituzionale delle ASL rispetto ai successi della medicina ospedaliera e tecnologica.

La riduzione del finanziamento e posti letto

La spesa sanitaria è stata considerata alla stregua di tutte le altre spese (non lo stesso trattamento è stato riservato alla spesa militare) nelle operazioni di taglio a cui la spesa pubblica è stata sottoposta. In Italia la percentuale di spesa sanitaria sul PIL si è ridotta sempre più raggiungendo quasi il 6% nei prossimi anni, tra le più basse in Europa (spread al contrario). Allo stesso tempo anche i posti letto pubblici (non quelli privati) si sono progressivamente ridotti.

Scarsa attenzione si è rivolta alla sicurezza che pure non costerebbe molto (per sistemare dal punto di vista sismico le strutture sanitarie sarebbe necessario il 4% dell’investimento).

Non solo, ma spesso lo Stato ha prelevato dal finanziamento sanitario la quota non versata dalle Regioni a statuto speciale. Viene anche approfondito l’impatto negativo degli accorpamenti di ASL che ha portato ad un gigantismo organizzativo con perdita di controllo e allontanamento dei centri decisionali dei luoghi della cura.

Il mito dell’eccellenza

Alcune misura come i supertickets hanno mostrano un volto della sanità pubblica simile a quello di una matrigna: inseriti per ridurre i deficit delle Regioni, hanno di fatto reso più conveniente l’acquisto di tasca propria presso i privati delle prestazioni da parte dei cittadini.

La cultura dell’eccellenza, poi, in realtà non giova al sistema: esaltare alcuni goal come realizzazioni comunicativamente attraenti in un conteso che globalmente arranca non è salutare per il SSN, disorienta il giudizio del cittadino che vede eccellenze accanto a degrado. Il sistema deve essere funzionante nel suo complesso. Il SSN non è fatto solo di cure, ma anche di prevenzione. Si pensi ai controlli sull’acqua potabile e sugli alimenti: come potrebbero realizzarsi in un contesto di tipo assicurativo?

Le disuguaglianze ingiuste fanno male alla salute

Il libro dedica un capitolo all’impatto delle diseguaglianze socio-economiche sulla salute. Vengono riproposti i temi di Michael Marmot, il ricercatore inglese che maggiormente in questi anni ha dimostrato, con studi condotti in tutto il mondo, come sia possibile migliorare le differenze di salute aumentando l’eguaglianza nelle comunità. Ma Dirindin mette anche in guardia sul rischio che richiamando il ruolo di altre discipline nella produzione di salute (urbanistica, istruzione, sociologia) si rinvii l’impegno per un’assistenza sanitaria allo stato dell’arte.

Viene trattata anche la questione dei risparmi realizzabili con i farmaci generici ed il ruolo di Big Food, Big Soda, Big Alcool che si sono affiancate al Big Tobacco in questi ultimi tempi nell’attentare alla salute attraverso l’alterazione degli stili di vita soprattutto dei bambini (obesità).

Controllori e controllati

I diversi sistemi sanitari regionali hanno accentuato le differenze Nord/Sud ma hanno reso difficile anche la valutazione della reale erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza in quanto le modalità di verifica sono condizionate dagli stessi controllati cioè le Regioni. Importante anche il ruolo svolto da Big Pharma nel condizionare il mercato del farmaco e del biomedico. La fidelizzazione dei medici e una informazione scientifica indipendente sarebbero un necessario antidoto.

 Due lacune

In questo piccolo manuale così ricco di temi e così utile per chi voglia rilanciare il dibattito sulla irrinunciabilità del SSN pubblico mancano però due capitoli: quello sulla libera professione dei medici pubblici e l’assenza dell’apporto delle professioni sanitarie e della cittadinanza alla gestione della SSN. I direttori generali sono isolati nelle loro torri di comando in contatto solo con il decisore regionale. La libera professione dei medici pubblici così come è oggi realizzata in gran parte del paese è largamente concorrenziale col servizio pubblico. Per certi versi un vero autogol.

Sei proposte per superare le criticità

Il libro si chiude con sei proposte “per superare le criticità del momento”: promuovere un movimento culturale teso a rivalutare il ruolo svolto dalla sanità pubblica quale fattore di coesione sociale e di promozione del benessere; una inversione di tendenza nel finanziamento della sanità pubblica che allinei il nostro alla percentuale di PIL degli altri paesi dell’Europa occidentale, con un piano di investimenti strutturale e tecnologico, che punti alla sicurezza dei luoghi di cura ed eviti il ricorso alla costosa finanza privata; puntare all’innovazione ICT; sul capitale umano; sulla riduzione del divario Nord-Sud; ridefinire la sanità integrativa in modo che sia veramente tale e non sostitutiva dei LEA; promuovere una robusta politica nazionale per la non autosufficienza.

Maurizio Portaluri

22 gennaio 2019