“Il susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne e il conseguente allarme sociale che ne è derivato rendono necessari interventi urgenti volti ad inasprire, per finalità dissuasive, il trattamento punitivo degli autori di tali fatti, introducendo, in determinati casi, misure di prevenzione finalizzate alla anticipata tutela delle donne e di ogni vittima di violenza domestica”.

Con queste parole il Capo dello Stato ha ritenuto di introdurre il decreto legge del 14 agosto 2013 n. 93, poi convertito con modifiche nella legge 15 ottobre 2013 n. 119, individuando nei molteplici episodi di femminicidio degli ultimi anni “i casi straordinari di necessità e urgenza” che giustificano l’eccezionale potere legislativo del Governo previsto dall’art. 77 della Costituzione.

Un decreto legge la cui emanazione è stata accompagnata sin da subito da numerose ed aspre critiche da parte degli operatori del diritto, prima tra tutti l’Unione delle Camere penali, che hanno evidenziato l’inadeguatezza dello strumento della decretazione d’urgenza per affrontare un problema così rilevante e culturalmente radicato come quello della violenza di genere.

Inadeguatezza che balza subito agli occhi dalla stessa rubrica del decreto,“Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province”, che affianca in un unico testo legislativo, non si comprende bene con quale criterio di similitudine, le norme contro il femminicidio con quelle in materia di protezione civile e volte a garantire la continuità amministrativa degli organi provinciali.

È indubbio che per affrontare un problema sociale e culturale di dimensioni così rilevanti come quello della violenza sulle donne sarebbe stato più opportuno, e forse anche più efficace, un provvedimento legislativo ad hoc, puntualmente ed esclusivamente dedicato a tale materia.

Nonostante il suo contenuto assolutamente eterogeneo, il decreto 93/2013 è ormai comunemente noto come il c.d. decreto contro il femminicidio pur non contenendo in nessuna disposizione una definizione di tale termine.

Allo stesso modo la parola “femminicidio” non compare mai nel nostro codice penale né processuale che si limitano a parlare di violenza e omicidio in generale senza che essi abbiano una connotazione strettamente legata alla differenza di sesso.

Viene, invece, introdotto per la prima volta il concetto di violenza domestica e quello di violenza assistita, tant’è vero che il decreto prevede una nuova circostanza aggravante comune per i delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di maltrattamenti in famiglia, ossia “l’aver commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza”.

Purtuttavia, aldilà di ogni definizione e critica, il merito principale di questo decreto è stato innanzitutto quello di mettere in luce e rendere edotta l’opinione pubblica, se mai ce ne fosse ancora bisogno, di quanto siano radicate nella nostra società pratiche violente da parte degli uomini nei confronti della donna in quanto donna, perché ritenuta soggetto debole, inferiore all’uomo e vittima di secolari pregiudizi.

Pertanto, quando si parla di femminicidio si fa riferimento a quelle “forme di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una struttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità femminile attraverso l’assoggettamento fisico e psicologico, fino alla schiavitù e alla morte” (Devoto-Oli).

Ancor prima che con l’emanazione del decreto in questione, il nostro paese aveva ravvisato l’esigenza di far fronte al fenomeno della violenza di genere ratificando, con la Legge 27 giugno 2013 n. 77, la “Convenzione sulla prevenzione della violenza contro le donne e la lotta contro la violenza domestica”, comunemente nota come la c.d. Convenzione di Istanbul, paese in cui è stata sottoscritta dai membri del Consiglio d’Europa.

Nel preambolo della Convenzione, entrata in vigore nel nostro paese a partire dal 4 agosto scorso, si legge che “il raggiungimento dell’uguaglianza di genere, de iure e de facto, è un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne (..) riconoscendo che essa è una manifestazione dei rapporti storicamente diseguali tra sessi che hanno portato alla determinazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione”.

Ecco dunque che la Convenzione rispetto al decreto 93/2013 fa un passo ulteriore: quello di affrontare il problema della violenza di genere, ancor prima che sul versante repressivo, dal punto di vista culturale.

Il testo della Convenzione di Istanbul, infatti, si fonda su tre pilastri fondamentali per affrontare la lotta alla violenza contro le donne:  la prevenzione, la protezione e, infine come ultima ratio, la punizione.

Alle donne vittime di violenza, specie se essa avviene nelle mura domestiche, spesso non basta la mera punizione dei maltrattanti se essa non sia accompagnata anche da un adeguato sistema risarcitorio e riparatorio del danno.

Anzi quelle stesse donne si trovano frequentemente nella condizione di dover subire anche violenza economica perché prive dei mezzi adeguati per mantenere sé stesse e i propri figli e, pertanto, economicamente dipendenti dai propri carnefici.

Ne consegue che la violenza di genere non può essere combattuta solo sul fronte repressivo ma deve essere prima ancora  che repressa, prevenuta.

Il nostro provvedimento legislativo, invece, dà un rilevo fondamentale, se non esclusivo, al profilo repressivo che, seppur necessario, non può essere l’unico strumento di lotta al problema. L’inasprimento delle pene previste per i cosiddetti “delitti spia” (maltrattamenti in famiglia, minacce, violenza sessuale, atti persecutori) è sicuramente un deterrente ai fenomeni di violenza  ma occorre non trascurare il fondamentale elemento culturale e formativo che si cela dietro tali episodi.

È pur vero che nel testo normativo si parla di promozione culturale delle differenze tra sessi e di educazione alla  relazione ma “nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio, senza costi aggiuntivi per la finanza pubblica”, il che la dice lunga su quanto poi tale formazione possa essere concretamente attuabile se priva di adeguati fondi.

Ed è, invece, proprio sull’elemento formativo e culturale che andrebbe posto l’accento per capire quali sono le basi che generano i casi di violenza di genere.

Casi che di sicuro non nascono e non accadono ex abrupto anche se spesso sono presentati dalla cronaca come frutto di “raptus” inspiegabili e imprevedibili da parte di insospettabili “bravi ragazzi”.

Ebbene, ciò che è da scardinare è prima di tutto questo fuorviante approccio al tema della violenza di genere.

Le molestie alle donne, gli atti persecutori e, infine nei casi più estremi, i femminicidi di imponderabile e inspiegabile hanno ben poco e non sono certo un fenomeno di oggi o una emergenza sociale attuale così come sono stati definiti dal decreto del 2013.

Soprusi , maltrattamenti e omicidi di donne per mano di uomini che spesso sono compagni o mariti sono sempre esistiti e sono il frutto di una società culturalmente orientata ad affidare ruoli prioritari agli uomini in famiglia, nel lavoro e in ogni formazione sociale in cui si esplichi la personalità dell’individuo, nonostante la nostra Costituzione ribadisca all’art. 51 che la Repubblica deve “promuovere con appositi provvedimenti le pari opportunità tra uomini e donne”.

Occorre, perciò, agire, ancor prima che sulla protezione della donna, sugli uomini educandoli alla bellezza e ricchezza della differenza tra sessi affinché sia sovvertita quella arcaica e patriarcale cultura del possesso che porta il “maschio” a voler predominare, controllare e comandare e, pertanto, a sentirsi quasi legittimato alla violenza se abbandonato o rifiutato.

La formazione deve partire proprio dalle istituzioni scolastiche come luogo privilegiato di incontro tra i due sessi, dagli organi di informazione, dalle strutture sociosanitarie che educhino al rispetto della dignità femminile eliminando gli stereotipi circa la rigida divisione dei ruoli tra sessi affinché il cambiamento sia culturale ancor prima che giuridico e normativo.

Fondamentale è, in tal senso, l’azione della famiglia poiché i figli imparano e apprendono attraverso le azioni dei loro genitori che, dunque, devono costituire un esempio da seguire e imitare e non da cui discostarsi.

Per cui, in assenza di altri validi modelli di riferimento, un bambino che cresce in un ambiente domestico in cui il padre maltratta la madre, assistendo a scene di violenza fisica, psicologica e verbale, con ogni probabilità riprodurrà gli stessi comportamenti nei suoi rapporti con l’altro sesso credendo che i rapporti di genere debbano essere regolati dalla violenza piuttosto che, come è giusto che sia, dal rispetto reciproco.

L’educazione, o meglio la ri-educazione, e il sostegno psicologico deve riguardare anche gli uomini che maltrattano affinché, una volta scontata la pena, non tornino a reiterare i loro crimini.

Il decreto legge n. 93/2013 fa un primo lodabile passo in tal senso che, però, non deve rimanere isolato.

Le maggiori e più rilevanti novità introdotte dalla novella legislativa riguardano, ad esempio, l’irrevocabilità della querela per il reato di “stalking”.

La remissione della stessa è possibile solo in sede processuale affinché si possa raggiungere il giusto bilanciamento tra il rispetto della libertà di autodeterminarsi della vittima e l’esigenza di evitare che la stessa sia sottoposta a ulteriori pressioni da parte del persecutore.

Infatti, con la remissione processuale è compito del giudice valutare la effettiva volontà della persona offesa e la spontaneità delle sue decisioni remissorie.

Vi è di più: numerose modifiche sono volte ad assicurare alla vittima una maggiore informazione ed assistenza, sia in sede processuale che extraprocessuale.

A tal proposito si pensi al diritto della persona offesa di essere informata della facoltà di nominare un difensore e di accedere al gratuito patrocinio anche in deroga ai limiti reddituali previsti dalla legge.

In linea con la direttiva europea, i presidi sanitari e le istituzioni pubbliche che accolgono la vittima di violenza domestica hanno l’obbligo di fornirle tutte le informazioni utili relative ai centri antiviolenza e di mettere la persona offesa in contatto con tali centri qualora ne faccia espressa richiesta.

Sempre in un’ottica securitaria si pongono, poi, le modifiche legislative che prevedono che la revoca o sostituzione delle misure cautelari applicate nei processi aventi ad oggetto delitti commessi con violenza sulle persone sia notificata, a cura della parte richiedente e a pena di inammissibilità, alla persona offesa o al suo difensore.

Questi possono, nei due giorni successivi alla notifica, presentare memorie ai sensi dell’articolo 121 c.p.p. e il giudice procede una volta decorso detto termine.

Allo stesso modo per i delitti commessi con violenza il pubblico ministero deve in ogni caso notificare la richiesta di archiviazione alla persona offesa (e non solo quando questa ne abbia fatto richiesta), la quale potrà opporsi entro il termine di venti giorni (e non dieci come di norma).

Rilevante è anche la priorità assoluta che deve essere data, nella formazione dei ruoli di udienza, alla trattazione dei processi aventi ad oggetto i delitti di maltrattamenti in famiglia, atti persecutori e violenza sessuale.

La ratio di questa “corsia preferenziale” è quella di evitare una “vittimizzazione secondaria” della donna che oltre al danno spesso subisce anche la beffa di dover tollerare processi lunghi, estenuanti che troppo di frequente diventano una occasione per rivivere e rivangare dolori e ferite già tragicamente subiti.

Dunque, cosa occorre ancora fare per debellare un fenomeno così radicato e  preoccupante come quello della violenza di genere?

È indispensabile, innanzitutto, affrontare e combattere il problema non solo da un punto di vista giuridico ma anche politico, culturale e sanitario.

I femminicidi nascono spesso nelle mura domestiche, proprio dove ci si dovrebbe sentire più al sicuro, nell’ambito di relazioni affettive “malate”.

Sono il frutto di una visione dell’amore che si confonde pericolosamente con il possesso, l’ossessione e la gelosia fino quasi a giustificare la reazione violenta dell’uomo ferito, abbandonato o rifiutato come una legittima vendetta al suo onore leso.

La vittima ha bisogno di essere accompagnata nel suo percorso processuale ed extraprocessuale da addetti ai lavori (magistrati, avvocati, consulenti, psicologi) che siano specificamente preparati per tali casi ma allo stesso modo è necessario non trascurare l’importanza del recupero sociale degli uomini maltrattanti.

Tutto ciò perché la violenza di genere non venga più  percepita come un fatto privato che non ci tocca ma come un problema che riguarda e coinvolge tutti, che incide sulle basi di una società degna di essere definita civile, sulla mentalità collettiva e, dunque, sull’etica pubblica e che, proprio per questo, impone un intervento delle istituzioni statali.

Questo era certamente l’apprezzabile intento perseguito dal legislatore col decreto legge n. 93/ 2013.

Se, però, tali intenzioni siano state effettivamente portate concretizzate nel modo migliore è un argomento sicuramente discutibile specie ove si guardi al contenuto del testo normativo licenziato dal Governo, fatto di disposizioni a tratti irrazionali che appaiono il frutto di una fretta propagandistica di cui il legislatore pare essere stato “vittima” e, allo stesso tempo propulsore.

I lodevoli e condivisibili intenti iniziali di agire sulle cause della asimmetria tra sessi che generano violenza hanno, pertanto, ceduto il passo all’esigenza di dare una risposta immediata e, forse frettolosa, alle pressioni mediatiche inclini a presentare il femminicidio come un impellente e inedito allarme sociale da debellare.

Il risultato è stato quello di un decreto legge, poi convertito in legge, che più che affrontare e combattere il problema della violenza sulle donne sin dalle sue fondamenta socio-culturali appare come una classica espressione di quello che ormai tra gli addetti ai lavori viene definito “diritto penale simbolico”; quello, cioè, che nasce dalle presunte “emergenze” e, lungi dall’eliminare le cause reali di queste ultime, muore molto prima di loro.

Praticamente, lo stesso giorno in cui viene emanato.

Fasano, 9\9\2014

Avv. Anna Ancona