Il plurimo suicidio di Civitanova Marche evoca la necessità e l’urgenza di adottare un piano nazionale di prevenzione; la stampa si è dilungata su immagini un po’ stereotipate: l’area geografica di cui parliamo ha certo vissuto in passato un qualche benessere economico, ma evitiamo di essere bucolici: per esperienza professionale posso dire che è un’area che, anche,  ha pagato molto in termini di impatto sulla salute occupazionale con l’aggravante delle attuali difficoltà ad ottenere gli adeguati risarcimenti e riconoscimenti  anche solo sul piano delle malattie professionali;

piani di prevenzione del suicidio sono stati adottati in diverse regioni europee, a volte, con risultati importanti; le istituzioni arrivano però quasi sempre solo il giorni dei funerali.

E’ evidente che un piano di prevenzione non è solo un piano tecnico finalizzato a monitorare e disinnescare magicamente i rischi psicosociali; il miglior contributo alla prevenzione consiste nell’evitare la miseria materiale e le umiliazioni morali che contribuiscono a rendere enorme il numero delle persone vulnerabili; ma siamo andati troppo avanti nell’allargamento e nella cronicizzazione delle povertà per poter prescindere da un piano specifico di prevenzione dei rischi immanenti di “passaggio all’atto” da parte delle persone più disperate.

In ogni città, in ogni quartiere, se possibile in ogni condominio, potrebbero costituirsi gruppi di autoaiutoche agiscano autonomamente sia contando sulle proprie forze che cercando di stimolare le istituzioni mettendosi , ove possibile, in sinergie con queste.

Purtroppo siamo in ritardo, tutti. La denuncia è necessaria ma non è sufficiente.

Intenzioni e programmi di lavoro furono formulati a Bologna circa un anno fa, in occasione della “marcia delle vedove” che aveva fatto seguito al suicidio di un artigiano che si era dato fuoco davanti alla sede della Agenzia delle entrate; ma la signora, vedova di quel lavoratore, ha denunciato (nonostante alcune blande dichiarazioni di solidarietà ricevute a ridosso dell’evento luttuoso) di essere ancor oggi disoccupata e di essersi dovuta trasferire presso familiari in un’altra regione.

Prima ancora di quel drammatico episodio un gruppo di auto-aiuto tra i lavoratori cassintegrati della fonderia Sabiem aveva dato buoni risultati in termini di coesione sociale, di alternativa all’isolamento ed al rischio clinico di depressione. A queste esperienze occorrerebbe dare continuità.

Dobbiamo comunicare, agire metterci in relazione col nostro vicino di casa e con chi bussa alla nostra porta,ma anche con chi non bussa.

Costruiamo una rete nazionale per la prevenzione.

Vito Totire, medico psichiatra

Bologna, 8.4.2013