Agosto 2010

Il Governo emette un decreto legislativo (n. 155\2010) per recepire la direttiva europea 2008/50/CE relativa alla “qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa”.

Dunque, approva una norma che sospende l’applicazione di un’altra: quella che, dal 1° gennaio 1999, imponeva il limite di 1 nanogrammo a metro cubo per il benzo(a)pirene, un micidiale cancerogeno che fa parte della famiglia degli IPA (idrocarburi policiclici aromatici), nei centri urbani con oltre 150 mila abitanti.

Quell’obsoleto divieto, quindi, salta come il tappo di una bottiglia di spumante: quella che, verosimilmente, stappa la gran parte delle imprese italiane meno “eco-sostenibili”, per usare una pietosa litote, alla notizia che l’incommentabile esecutivo di questo Paese per raggiungere l’obiettivo di “un’aria più pulita” riesce ad approvare una perla di legislazione ambientale di tal fatta. Dove si legge, tra l’altro, che, il divieto sarà riesumato solo a partire dal 2013; e solo a condizione che questo non comporti “costi sproporzionati” (sic!) per le aziende che a quella prescrizione proprio non potranno non adeguarsi, magari perché emettono un po’ troppa della benefica sostanza in questione.

L’Ilva di Taranto non è esattamente estranea a questa schiera di salubri imprese.

Per la precisione, nella città jonica, la realtà produttiva in esame è la prima beneficiaria del nobile provvedimento legislativo, dato che l’Arpa Puglia ha certificato che nel quartiere Tamburi di Taranto (quello più vicino all’acciaieria) si è registrato un significativo sforamento del limite di legge di benzo(a)pirene e che il 98% di quest’ultimo è stato emesso proprio dal siderurgico della famiglia Riva, più precisamente dalla tristemente nota “cokeria”.

A Taranto, pertanto, per tornare a respirare con qualcosa in meno del timore di stare inalando, oltre all’ossigeno, un embrione di cancro, bisognerà aspettare il 1\1\2013.

Sempreché la cosa non comporti “costi sproporzionati” per l’Ilva e\o chi per lei, s’intende.

Di questo grazioso omaggio al loro ambiente ed alla loro salute, i cittadini poterono ringraziare sia il governo sia grande parte “dell’opposizione” (absit iniuria verbis), dato che il decreto passò con l’ovvio sì anche dei parlamentari “dell’ambientalismo del sì”.

Insomma, l’ennesimo gioiello bipartisan, applicato, stavolta, alla tutela dell’ambiente e della salute pubblica e donato gentilmente all’Ilva, per le indubitabili e preziose gemme che questa, a sua volta, ha elargito, in questi due campi, al territorio ed alla popolazione tarantini.

Luglio 2011

Viene approvato il decreto legislativo n. 121 che dà attuazione alla direttiva europea (2008\99) in materia di tutela penale dell’ambiente. O, almeno, questo è quello che è scritto nel titolo di questo provvedimento, giacché, nella realtà del testo di legge le cose stanno, ancora una volta, in maniera “appena” diversa.

Difatti, questa normativa comunitaria afferma l’obiettivo di “tutelare l’ambiente in modo più efficace” tramite l’adozione, nell’ordinamento interno di ogni Stato membro, di “sanzioni penali efficaci, proporzionate e dissuasive”; ma sancisce, anche e soprattutto, che “gli Stati membri provvedono affinché le persone giuridiche possano essere dichiarate responsabili dei reati di cui agli articoli 3 e 4 (quelli contro l’ambiente, ndr) quando siano stati commessi a loro vantaggio….”.

Si tratta, in quest’ultimo caso, della responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche, in particolare delle imprese, istituto ormai entrato nel nostro ordinamento da più di 10 anni con riferimento a numerose specie di illeciti penali, tra i quali non vi erano, fino all’emanazione di questo decreto (ma, più precisamente, fino all’approvazione della direttiva europea che lo ha dettato), proprio quelli contro l’ambiente.

L’atto legislativo citato, giunto alla fine di un percorso legislativo lungo e sofferto (per continuare con gli eufemismi), sotto il profilo delle sanzioni (che, come visto, secondo il legislatore europeo dovrebbero essere efficaci, proporzionate e, soprattutto, dissuasive) si limita ad introdurre due nuove figure di reato nel codice penale (la “Uccisione ……. di  esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette” e la “Distruzione o deterioramento di habitat all’interno di un sito                              protetto”), certamente importanti, ma forse, in sé, non proprio sufficienti a soddisfare (per ricorrere ad un’altra locuzione diplomatica) i precetti contenuti nella direttiva europea. E ciò, tra le altre, per la fondamentale ragione che, anche nel caso di queste ultime fattispecie di reato introdotte, si tratta di contravvenzioni, e non di delitti, con la conseguente, certa, incapacità delle stesse di reale “efficacia e dissuasività”, per millanta ragioni: blande pene, possibilità di estinzione del reato tramite oblazione, tempi desolantemente brevi di prescrizione….

Ma, dov’è ancora più stridente il contrasto tra le indicazioni di tutela degli Organi comunitari e il “prodotto legislativo nazionale” è nelle novità in materia di responsabilità diretta delle imprese.

Se, infatti, finalmente quest’ultima viene prevista anche per i reati contro l’ambiente (ma, in questo caso, neanche questo legislatore italiano, che brilla della vivida luce ecologista che si sta provando a mettere ad illustrare, poteva impedirlo, nonostante tutti i suoi titanici sforzi), il decreto presenta delle autentiche perle di logica giuridica, prim’ancora che di sensibilità ambientalista, veri e propri marchi di fabbrica del legislatore italiano di quest’aurea epoca storica.

E’ il caso dell’ineffabile esclusione dall’ambito di applicabilità della responsabilità delle imprese delle fattispecie di causazione di un disastro ambientale e di quelle di avvelenamento di acque destinate all’alimentazione previste dal codice penale.

A tacere dei profili di compatibilità con la direttiva europea, questa geniale scelta legislativa consegue il mirabile risultato per cui si puniscono le imprese al cui interno si siano commessi reati meramente formali (come quelli costituiti dalla, pur grave, violazione di “meri” limiti di emissione), ma non quelle nell’interesse delle quali si siano tenuti comportamenti dolosi e colposi sfociati poi in fatti decisamente più lesivi, per non dire letali, di inquinamento delle acque, dell’aria e del suolo.

Anche in questo caso, si registra una probabile, specifica applicazione anche di quest’ennesimo capolavoro legislativo in Puglia.

Di nuovo a Taranto, per la precisione.

Ancora relativamente alla stessa persona giuridica citata sopra: l’Ilva, i cui vertici sono sotto procedimento penale, in questa città, proprio (tra le altre ipotesi di reato) per disastro ambientale a causa delle varie forme di “impatto” dello stabilimento su quel martoriato territorio.

In pratica, quest’azienda, in quanto tale, non sarebbe, comunque, chiamata a rispondere col proprio patrimonio dell’eventuale disastro ambientale che dovesse esser accertato a suo carico nei confronti delle acque, dell’aria e del suolo tarantini.

E, anche in questo caso, per la multinazionale della famiglia Riva (come per tutte le altre imprese nella stessa posizione processuale), la notizia è eccellente.

Per l’ambiente e la popolazione di Taranto (che dalle maglie stracciate, più che larghe, della normativa di tutela ambientale hanno guadagnato uno dei territori più impestati d’Europa), e per tutte le altre città nella stessa condizione sostanziale, un po’ di meno.

Fermo restando che, per quanto riguarda Ilva, il procedimento è ancora in fase di indagini preliminari e che, nel nostro ordinamento penale, la presunzione di non colpevolezza vale anche per le imprese, risulta, comunque, confermato che questo governo e questa maggioranza non sono specialisti solo nella costruzione di tunnel per neutrini elvetici in escursione sul Gran Sasso, ma anche per levantini italici in perenne evasione dalle leggi e dalle regole nazionali ed ora anche europee.

Fasano, 2\10\2011

Stefano Palmisano