Siamo Marco Monfredini e Valentina De Luca, direttore artistico/regista e organizzatrice dell’associazione culturale Anticamera Teatro di Torino, che dal 2012 ha avviato un percorso teatrale e culturale nei Territori Palestinesi dal nome BORDERMINDPROJECT.

Nel 2012, dopo precedenti esperienze personali di alcuni mesi in Palestina, abbiamo realizzato la prima parte di lavoro attraverso una residenza teatrale allo Yafa Cultural Center del campo profughi di Nablus, che è sfociato in uno spettacolo sul tema della separazione e un workshop teatrale con i giovani del centro. Lo spettacolo è stato in tournée in Italia e ha ottenuto riconoscimenti tra i quali miglior spettacolo al CrashTestFestival 2013. Nel 2015 abbiamo continuato il lavoro nel campo di Balata, in un centro di aggregazione giovanile di Gerusalemme e siamo entrati in contatto con diverse realtà teatrali professioniste palestinesi quali Freedom Theatre, Al Harah theatre ecc… producendo un documentario sull’esperienza teatrale realizzata in quell’occasione che a breve sarà presentato pubblicamente.

A novembre 2017 ci saremmo dovuti recare nei Territori Palestinesi per realizzare una serie di workshop con alcune realtà culturali locali professioniste e non. Il lavoro sarebbe stato incentrato sul tema: “Quali conflitti genera il conflitto?” Per la realizzazione di tali attività abbiamo selezionato in Italia due attrici e un interprete italiano-arabo: Alice, Giulia e Omar tutti cittadini italiani. Omar ha anche un passaporto marocchino essendo nato a Marrakesh e trasferitosi in Italia all’età di 6 mesi.

Il 4 novembre 2017 siamo partiti da Milano Malpensa atterrando presso l’aeroporto di Tel Aviv. Non tutti sanno che, per raggiungere la Palestina si deve obbligatoriamente transitare da Israele, poiché la polizia israeliana controlla tutti gli accessi al Paese, compreso quello dal confine giordano. Ci siamo sottoposti ai controlli dell’immigrazione dichiarando che saremmo entrati nel paese come turisti, consapevoli del fatto che, come è ben noto a chi si deve recare in Palestina, rivelando il vero motivo del viaggio saremmo stati rimpatriati. Tutti i membri italiani del gruppo hanno ricevuto il visto d’ingresso. Omar è stato invece immediatamente fermato dal personale dell’aeroporto dopo il solo controllo del passaporto. Dopo diverso tempo scopriamo che era stato sottoposto a diversi interrogatori incentrati prevalentemente sulle sue origini arabe. Gli era stato inoltre sequestrato il cellulare e aveva dovuto consegnare tutti i suoi indirizzi mail e i riferimenti dei suoi social network. Dopo più di due ore dal suo fermo, il personale di sicurezza dell’aeroporto si è presentato al resto del gruppo in attesa nella hall dell’aeroporto. Siamo stati quindi portati nel medesimo luogo dove lui ed altre persone erano bloccate. Da quel momento sono iniziati per ore e a più riprese degli interrogatori incrociati in maniera separata e intimidatoria a tutti i membri del gruppo. Hanno requisito tutti i telefoni consultando liberamente ciò che volevano, pretendendo indirizzi mail e identità sui social. Dopo diverso tempo ci hanno preso le impronte digitali, fotografato il volto e consegnato un foglio di accesso negato al paese con la motivazione: “Considerazioni di prevenzione di immigrazione illegale”, pur avendo attraversato precedentemente in maniera regolare i controlli, essere stati richiamati indietro da loro e non aver in alcun modo tentato di entrare abusivamente nel paese. A Omar è stato inoltre indicato “Considerazioni di pericolo alla sicurezza pubblica e all’ordine pubblico”.  In tutte le fasi precedenti e durante gli interrogatori siamo riusciti a metterci in contatto, con il Consolato Italiano per ottenere supporto. Il personale della security dopo circa mezz’ora è venuto a prelevare Giulia e Alice. Non avendo avuto la possibilità di comunicare abbiamo scoperto solo successivamente che avevano concesso ad entrambe di entrare nel paese con un visto straordinario di 8 giorni, anziché i tre mesi di routine.

Sono state fasi molto concitate, considerando anche la stanchezza accumulata per essere svegli dall’una di mattina ed essere stati sottoposti a questo trattamento per ore. Il gruppo era separato e impossibilitato a comunicare in maniera adeguata. Le due ragazze, non senza difficoltà, sono riuscite a raggiungere Tel Aviv. Noi siamo rimasti in attesa in una stanza asettica, senza avere notizie per ore. Dopo diverso tempo siamo stati caricati su un furgoncino blindato con il solo bagaglio a mano, avendo ricevuto l’ordine di lasciare in la valigia grande. Siamo stati deportati in una struttura detentiva decadente e lurida dove ci hanno fatto lasciare i bagagli e tutti gli effetti personali.  Siamo stati rinchiusi separatamente in una cella con altre 9 persone con solamente un lenzuolo fino al “prossimo volo”. È stato umiliante essersi trovati senza nessun motivo criminoso in una cella detentiva in condizioni inumane, privati della nostra libertà e senza poter avere contatti con l’esterno. In quel momento nessuno sapeva dove fossimo e in quali condizioni ci trovassimo. È stata lesa la nostra dignità di persone e di cittadini italiani. Siamo stati messi nella condizione di non avere più diritti e nessuna tutela.

Il giorno dopo, siamo stati portati in aeroporto e sottoposti a degli approfonditi controlli. Omar ha dovuto anche subire perquisizioni corporali delle parti intime.  Siamo stati scortati fin sopra l’aereo, mentre i nostri passaporti sono stati consegnati al personale di bordo della compagnia che ha avuto l’incarico di restituirli solamente alla polizia all’arrivo in Italia. A Milano siamo stati prelevati da una pattuglia della polizia che ci ha scortati all’interno dell’aeroporto.  Non c’è stata la necessità di spiegare ai poliziotti cosa fosse successo, poiché conoscevano già quel copione che avevano visto molte altre volte. Ci siamo quindi recati al ritiro bagagli dove non abbiamo trovato la nostra valigia, mai spedita.

Le due ragazze sono state rimpatriate a nostre spese il giorno 7 di novembre. La nostra valigia è tornata in Italia dopo 12 giorni grazie alle numerose telefonate e alle decine di mail spedite. I giorni successivi al nostro rientro con lucidità, rabbia e determinazione abbiamo redatto un report dell’esperienza e lo abbiamo mandato al Consolato Italiano a Gerusalemme, agli onorevoli e senatori delle commissioni degli Affari Esteri del Governo italiano. Ad oggi dalle Istituzioni nessuna risposta.

Non siamo stati né i primi né saremo gli ultimi ad essere sottoposti a questo tipo di trattamento, ed è nulla in confronto a tutte le ingiustizie e le privazioni che i palestinesi devono subire ogni giorno nel disinteresse generale. Crediamo però sia un dovere continuare a informare l’opinione pubblica su cosa accade in quel Paese. Nessuno può recarsi nei Territori Palestinesi senza dover passare dai controlli di Israele, uno Stato che si dichiara democratico continuando impunemente a non rispettare i diritti individuali e il diritto internazionale. Ciò che è accaduto è un’ulteriore conferma della politica di isolamento che Israele continua a infliggere alla Palestina con ogni mezzo possibile, secondo un piano strategico lucido, dettagliato e consapevole. Oltre all’impossibilità di portare avanti il progetto su cui lavoriamo da 5 anni e per il quale sono state investite risorse in parte perse, stanno soprattutto impedendo a degli esseri umani la possibilità di scambiare professionalità e di coltivare affetti e amicizie costruite nel tempo.

Desideriamo quindi mettere in luce e denunciare gli aspetti più importanti della nostra esperienza

  • motivazione scorretta del diniego. Non c’è stato nessun tentativo di immigrazione illegale, anche perché in un primo momento abbiamo ottenuto il visto d’ingresso. Ciò è servito a nascondere il vero motivo dell’espulsione che lo stato d’Israele preferisce non rendere pubblico, ossia che le persone non possono recarsi nei Territori Palestinesi.
  • non ci sono stati illustrati i nostri diritti, siamo stati reclusi senza nessuna possibilità di difesa, internati in una cella e privati di tutti i mezzi di comunicazione con l’esterno dalle 20:00 fino al nostro arrivo in Italia il giorno successivo alle 17:00, senza che nessuno potesse essere a conoscenza del nostro stato e delle nostre condizioni, nonostante l’intervento del Consolato Italiano a Gerusalemme.
  • Non potremo più tornare in Palestina perché non vi è nessun altro modo per entrare nella Cisgiordania, se non quello di passare attraverso i controlli israeliani presenti in tutti i posti di confine; problema a cui, per tutti i cittadini interessati ad andare in Palestina, non è mai stata diplomaticamente trovata nessuna risposta né soluzione.

Nel Frattempo sull’agenzia di stampa Pressenza è uscito un interessante articolo che, inquadrando l’accaduto, pone un’importante riflessione: l’Italia scelga tra sudditanza e dignità.

L’Italia scelga tra sudditanza e dignità

Dopo più di venti giorni e un sollecito da parte nostra il Consolato Italiano a Gerusalemme ha risposto in questo modo alla nostra richiesta:

“Gentilissimi, a riscontro della Vostra cortese comunicazione, si fa presente che, non appena avuta notizia del Vostro caso, ci siamo tenuti in contatto con le Autorità israeliane in aeroporto che ci hanno confermato di aver respinto una parte del Vostro gruppo a causa delle dichiarazioni rese all’arrivo e di procedere, come prassi, al rimpatrio degli interessati. Peraltro, nella pagina relativa ad Israele del portale “Viaggiare Sicuri”, del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, si segnala la possibilità di prolungato fermo amministrativo ed espulsione di connazionali che, all’arrivo all’aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv, non presentino sufficienti garanzie sulla natura turistica del proprio viaggio in Israele. Cordiali saluti.”

Su cosa abbia scelto il nostro Paese crediamo non ci sia più alcun dubbio.

articolo del 4 novembre 2017