La distruzione dei campi illegali ogm: reato contro la proprietà privata o autodifesa dei beni comuni e della salute pubblica?

Nello scorso gennaio, il Consiglio di Stato ha emesso una, ormai nota, sentenza in materia di ogm, più precisamente di “messa in coltura di varietà di mais geneticamente modificate iscritte nel catalogo comune europeo” (Sez. VI, 19-01-2010, n. 183).

Sul provvedimento in questione si è propalata, da parte di alcuni precisi settori, per così dire, “culturali”, una vulgata interpretativa secondo la quale esso avrebbe praticamente “liberalizzato” la coltivazione di specie ogm nel nostro paese.Come sempre, quando si tratta di vulgate, l’interpretazione giuridica in questione è tanto approssimativa quanto poco disinteressata; dunque, inattendibile.In quel giudizio amministrativo si controverteva, in realtà, solo sul “rifiuto d’istruttoria” che il Ministero delle politiche agricole aveva comunicato all’azienda che gli aveva richiesto l’autorizzazione alla messa in coltura su citata.

Il provvedimento ministeriale era basato sulla stringente motivazione per cui era (è) del tutto insensato pensare di “poter procedere all’istruttoria della richiesta di autorizzazione” prima “dell’adozione, da parte delle regioni, delle norme idonee a garantire la coesistenza tra colture convenzionali, biologiche e transgeniche”.
Ciononostante, dato che la normativa comunitaria prevede la facoltà da parte degli stati membri di adottare i cosiddetti “piani di coesistenza” sulla base di mere ragioni economiche, essendo quelle di natura ambientale e sanitaria “esaurite” nel procedimento autorizzatorio svoltosi nella stessa sede europea, la mancata adozione dei piani non potrebbe esser addotta dall’ente centrale a giustificazione dell’impossibilità del rilascio dell’autorizzazione.
In tal senso, dunque, i giudici di Palazzo Spada, hanno “dichiarato l’obbligo dell’Amministrazione di provvedere sull’istanza di autorizzazione, entro un termine di novanta giorni decorrente dalla comunicazione o, se anteriore, notificazione della sentenza.”
Questo era, quindi, l’unico obbligo che scaturiva in capo al Dicastero dell’agricoltura da quella sentenza: quello di provvedere.
Ed, infatti, il Ministero ha provveduto.
Partendo dalle valutazioni della Regione Friuli Venezia Giulia, secondo cui, tra le altre, “la Regione è caratterizzata da una notevole ventosità in grado di favorire la dispersione pollinica; la coltura del mais risulta frammentata in un grande numero di aziende, ed in tale condizioni il rispetto di distanza che garantiscano l’esclusione di impollinazioni incrociate appare di grandissima difficoltà; la Regione ospita aree di grandissimo interesse, tutelate dal punto di vista naturalistico (ZTS, SIC, Biotopi ecc….); in ambito regionale sono state adottate nel tempo misure di tutela e di sviluppo verso sistemi di agricoltura biologica e integrata che non prevedono l’utilizzo di OGM….”, il Ministero, in data 7\4 u.s., ha respinto la richiesta di autorizzazione alla coltivazione di mais ogm Mon 810. Dove Mon sta, ovviamente, per Monsanto, la padrona della gran parte dei semi ogm esistenti sul mercato. Il che potrebbe voler dire, a breve, la padrona dei semi tout court.
Le motivazioni addotte dalla Regione Friuli costituiscono una mirabile sintesi delle più pregnanti, quanto ovvie, ragioni per cui consentire oggi, nelle condizioni agronomiche date, la coltivazione di ogm significa, di fatto, promuovere, oltreché un danno ambientale allo stato incalcolabile, anche il sabotaggio di una fondamentale fetta di produzione agricola: quella che fa bene all’ambiente ed alla salute pubblica.
E  quelle motivazioni sono perfettamente estensibili a tutto il territorio nazionale.
Nel nostro ordinamento, non è consentito procedere alla messa in coltura di sementi transgeniche in assenza delle previste autorizzazioni di legge, come recita l’articolo 1, c. 2, d. l.vo 212\2001.
Ma, nella materia che ci occupa, ancora più significativo risulta il comma 5 dello stesso articolo, a tenore del quale “Chi mette in coltura prodotti sementieri di varietà geneticamente modificate senza l’autorizzazione di cui al comma 2, è punito con la pena dell’arresto da sei mesi a tre anni o dell’ammenda fino a 100 milioni di lire.”
Quest’ultima previsione, (che, peraltro, non è l’unica che sancisca ipotesi criminose in caso di immissione non autorizzata, sul mercato o anche solo nell’ambiente, di organismi geneticamente modificati; si vedano, in tal senso, il d. lvo 224\03 ed il d. lvo 70\05) delinea nitidamente il quadro di riferimento normativo, ossia legale, nel quale va incasellato il “beau geste” dei cosiddetti “agro-libertari”, cioè la semina di mais ogm pure dopo la denegata autorizzazione ministeriale, e dunque disegna chiaramente la stessa natura di quel gesto: un illecito. Più precisamente, un illecito penale; un reato.
Un grave reato, stando a quello che va emergendo in maniera sempre più chiara dagli ultimi studi scientifici sugli ogm, contro l’ambiente e, quindi, contro la salute pubblica.
Ieri un gruppo di cittadini ha distrutto, di sua iniziativa, un campo di mais ogm che cresceva rigogliosamente e contaminava tranquillamente i campi vicini e l’intero territorio circostante, nell’atarassica contemplazione di tutte le autorità preposte, a partire da quella giudiziaria.
Prontamente, si sono levati alti strilli al delitto di lesa proprietà privata; in molti casi, da parte degli stessi soggetti istituzionali che, in questa vicenda, avevano cogenti obblighi di controllo e d’intervento a tutela anzitutto della salute pubblica.
Qualcun altro, come il presidente di Slow Food, ha detto che “non si risponde all’illegalità con l’illegalità”.
In teoria, quest’ultimo è un fondamentale assunto di ogni stato di diritto.
Ma chi scrive nutre forti dubbi che il gesto dei cittadini friulani possa esser qualificato illecito in senso pieno; men che meno reato.
Sotto il profilo etico, infatti, non v’è nulla, ma proprio nulla di disdicevole nel fatto che si distrugga una potenziale fonte di imponderabile pericolo per l’ambiente e per la salute pubblica.
Sotto quello giuridico, è troppo facile ricordare che in questo Paese, a Costituzione (ancora) vigente, la proprietà privata deve avere una “funzione sociale” e “l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza… umana.”
In questo caso, è necessario ribadire, ciò che viene messa a repentaglio non è solo l’utilità sociale, ma, per l’appunto, direttamente la salute pubblica.
Quanto, infine, all’aspetto strettamente penale, nella valutazione dell’operato di queste persone un ruolo fondamentale dovrebbe avere l’istituto dello “stato di necessità”, quello con cui si giustifica “chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona [….] sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo” (art. 54 c.p.).
Questa causa di giustificazione ancora oggi viene giustamente utilizzata per dichiarare non punibili condotte un tempo implacabilmente considerate criminose, ciò poiché, come ormai insegna la stessa Cassazione, “nel concetto di ‘danno grave alla persona’ rientrano non solo le lesioni della vita e dell’integrità fisica, ma anche quelle situazioni che attentano alla sfera dei diritti fondamentali della persona, riconosciuti e garantiti dall’art. 2 Cost., tra le quali rientra il diritto all’abitazione in quanto l’esigenza di un alloggio rientra fra i bisogni primari della persona”.
Se, dunque, è un diritto fondamentale della persona l’abitazione, in quanto tale giustificante un “reato”, perché mai, in un’imprescindibile ottica di intepretazione “evolutiva” del diritto, non dovrebbe esser considerato tale anche l’ambiente, che altro non è che l’abitazione di tutti noi, specie se dallo stato di quest’ultima dipendono la salute o la malattia dei suoi abitanti?
Fasano, 10\8\2010
Stefano Palmisano