di Lugi Russo*

Quello che leggiamo in questi ultimi giorni sui giornali, la Gazzetta del Mezzogiorno in particolare, sulla condizione della falda e sui sequestri dei pozzi è purtroppo soltanto la punta di un iceberg. La situazione è estremamente più grave di quanto possiamo immaginare, e non era così difficile rendersene conto negli anni scorsi, e quindi attivare opportune contromisure. E invece no, nulla è stato fatto. La sensazione di coloro che hanno a cuore la situazione dell’ambiente salentino, che si chiamino ecologisti o ambientalisti poco importa, è che in questi anni è stata attuata la politica dello struzzo. Cioè, c’era chi inquinava soprattutto con processi produttivi locali “spudorati” (chimica, soprattutto) oppure con sotterramento di liquami inquinanti provenienti anche da altre regioni, e c’era chi pensava che tanto la terra assorbe tutto, infinitamente, e comunque che non era un problema di questa ma al massimo delle prossime generazioni. In questo cortocircuito della logica e della responsabilità si è consumato un vero e proprio biocidio, irreversibile purtroppo, almeno per qualche secolo, che si riverserà purtroppo addosso a tutti, perché l’inquinamento della falda ritorna, tramite il mare o tramite l’acqua che emungiamo per l’agricoltura, nello stomaco, nel sangue, negli organi di tutti noi, e dei nostri figli, e dei figli dei nostri figli. E ci si ammala.

I primi studi che manifestano la pericolosità dell’inquinamento della falda, quella che sta intorno ai 120-130 metri, li abbiamo negli anni ‘90. Chi li faceva erano esperti chiamati in causa soprattutto dalle prime associazioni ambientaliste, oppure da qualche banca più attenta e sensibile. Il Salento in quel periodo viveva la sua unica e forse ultima industrializzazione della storia, con lo spuntare di molte fabbriche inquinanti soprattutto nel settore calzaturiero, che oltre a riempire le cave con rifiuti solidi tossici (pellami e mastici e altri prodotti dei processi produttivi) avevano quasi tutte dei buchi nella terra che portavano direttamente in falda i solventi (una di queste fabbriche, da quanto hanno raccontato alcuni operai alla forze dell’ordine, aveva addirittura 7 pozzi a perdere). Ma anche molte grandi officine, o zincherie, o depositi di carburanti, o oleifici avevano questo brutto vizio di scaricare in falda i loro rifiuti. In falda, a 120 metri di profondità, a Tiggiano due anni fa è stata trovata diossina. In altri comuni si è trovato PCB, o gasolio, o altre porcherie come acidi delle batterie d’auto.

C’è stato anche un altro fenomeno, incosciente anche questo, affermato negli ultimi anni, che ha accompagnato la cosiddetta trasformazione dell’agricoltura verde. Cioè l’abuso di pesticidi – il Salento è in testa alle classifiche nazionali – utilizzati per il diserbo. Queste sostanze chimiche, che non sono assolutamente biosolubili, sono state portate in falda direttamente attraverso i canali non a tenuta delle migliaia di pozzi artesiani. Oggi ci sono molti comuni che hanno fatto ordinanze nelle quali c’è scritto che è proibito usare pesticidi nel raggio di 100 metri dall’imbocco di un pozzo, ma il danno è già stato fatto. Abbiamo chimica agricola nel suolo, nelle piante, e anche nell’acqua della falda. E ce l’avremo per decenni.

Un altro grave problema di inquinamento che ha interessato la falda salentina è stato quello dei depuratori, questo fino ad almeno il 2000 in maniera massiccia. I liquami degli oltre 40 depuratori, dopo sommari processi di filtraggio con sabbie e trattamenti con cloro, finivano direttamente in falda. Non sono state poche le inchieste che hanno dimostrato che in falda non ci scaricassero solo i liquami dei processi urbani, più o meno depurati, ma anche dei processi industriali, con potentissimi inquinanti chimici, e chissà se non anche radioattivi.

C’è poi un altro fenomeno, poco trattato ma altrettanto grave, che è quello dell’eccesso di emungimento dalla falda, per uso agricolo (e pensare che c’è oggi chi vuole l’olivicoltura intensiva o superintensiva… chissà da dove prenderà l’acqua?) o per uso umano nelle abitazioni senza acquedotto, soprattutto nelle marine. C’è stato un periodo nel quale fu consentita la perforazione del suolo salentino senza criteri, e così le potenti pompe hanno aspirato milioni e milioni di metri cubi di acqua. Ora, secondo i dati più aggiornati, abbiamo come effetto che un 60% della falda salentina è salinizzata (quando si aspira acqua dolce, l’acqua salata avanza e prende il posto della dolce); in questo momento è rimasta utilizzabile per finalità umane soltanto la falda sottostante la parte centrale della penisola salentina, con un raggio di 10-15 km facendo centro su Corigliano D’Otranto.

L’unica notizia positiva, in questa tragedia appena appena descritta, è che la ASL di Lecce, in collaborazione con ARPA, ha avviato in questi giorni un progetto dal nome MINORE (Monitoraggi Idrici Non Obbligatori a livello Regionale): sarà dunque possibile raccogliere, analizzare e studiare un campione significativo degli oltre 34 mila pozzi che pescano dalla falda, in modo da riuscire a classificare lo stato del rischio dei corpi idrici sotterranei entro il 2018, così come previsto dalla normativa vigente. Naturalmente saranno ricercati non solo i batteri, ma anche le sostanze chimiche e altri inquinanti. Da questa mappatura potrà finalmente avere inizio un cambio di passo: sarà difficile disinquinare, naturalmente; ma forse sarà necessario fare una moratoria dell’abnorme numero di pozzi; e sarà più facile trovare i responsabili degli inquinamenti, non tanto per assicurarli alla patrie galere, ma almeno per farli smettere.

*Sociologo e giornalista

Pubblicato sul La Gazzetta del Mezzogiorno – Lecce Domenica 28 ottobre 2017