di Sandro Spinsanti

Dunque, immagina: uno scrittore si propone di redigere un saggio sulla nostra società. Lo spunto iniziale gli è fornito da una citazione di Ernst Juenger. Non lo conosci? Ti basti sapere che è un autore tedesco, vissuto nella prima metà del XX secolo, molto, molto discusso. È stato combattente della prima guerra mondiale e ha celebrato con toni molto esaltati la guerra stessa. Sulla stessa lunghezza d’onda di Marinetti, che in Italia in quel periodo dava voce al futurismo e della guerra affermava che è “la sola igiene del mondo”. La frase di Juenger su cui il nostro autore si appoggia suona: “La guerra non è solamente nostra madre, è anche nostra figlia. Siamo operai della nostra sofferenza, martiri della nostra fede”. Su questa base, il nostro saggista si sente autorizzato a scagliarsi contro la nostra società, perché si mostra “guerrofobica”. Le tante accuse che si sente in diritto di scagliare contro di essa le riassume nell’aggettivo “pacifica”, come sintesi di tutte le sue storture. Se volessimo contestargli che questo aggettivo non si presta alla strumentalizzazione che ne ha fatto, perché nell’uso linguistico ha ben altro significato, il nostro autore si potrebbe difendere adducendo che ha usato “pacifico” in senso metaforico. Dimmi: a questo punto riterresti che valga ancora la pena seguirlo nei suoi s-ragionamenti? Ne dubito.

Ebbene, l’esempio è inventato. Reale è invece un’altra vicenda letteraria. Un filosofo coreano-tedesco, Byung-Chul Han, intende scrivere un saggio sulla società contemporanea e su vari atteggiamenti che ritiene sbagliati. Parte da una frase di Ernst Juenger: “Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi tu sei”. A suo avviso questa sentenza può essere riferita alla società intera. E siccome la nostra società rifugge dal dolore – è “algofobica”, secondo la sua definizione – si sente autorizzato a chiamarla “società palliativa”. Palliativgesellschaft è appunto il titolo del libro in tedesco. Il traduttore italiano ha avuto qualche esitazione a tradurre, letteralmente, “società palliativa” e ha preferito: La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite (Einaudi, 2021). A richieste di chiarimento, l’autore ha risposte che il “palliativo” applicato alla società che critica è un uso metaforico.

L’atteggiamento palliativo nei confronti del dolore, equivalente ad “algofobico”: una metafora accettabile? Scivoliamo qui nel significato delle parole: fino a che punto può essere modificato a seconda delle preferenze di chi le usa? Tombolo Bombolo (Lewis Carrol: Nel mondo dello specchio) non ha dubbi: “Quando io adopero una parola, essa ha esattamente il significato che io le voglio dare… né più né meno”. Alice esprime i suoi dubbi: “Bisogna vedere se voi potete fare che le parole indichino cose diverse”. Ma Tombolo Bombolo è irriducibile: “Bisogna vedere chi comanda… ecco tutto”. E se il filosofo tedesco-coreano non comanda in ambito linguistico, il suo uso di “palliativo” nel senso di “algofobico” è una forzatura abusiva. Possiamo chiamarla anche uno stupro semantico.

Una seconda riserva, oltre a quella linguistica, ha a che fare con l’esaltazione del dolore come elemento costitutivo della qualità umana. Non possiamo dimenticare che abbiamo alle spalle un passato in cui il dolore veniva esaltato come condizione per accedere a un livello superiore di esistenza. L’ideologia del dolore come strumento di redenzione e di salvezza è tradizionale in alcuni modi di interpretare e di vivere il cristianesimo. Chiamiamolo pure “dolorismo”. Lo scrittore Christopher Hitchens ha indirizzato i suoi strali polemici contro Madre Teresa di Calcutta, identificandola come la portavoce di questa concezione ai nostri giorni (La posizione della missionaria, minimum fax, 2003). Soprattutto è motivo di turbamento la descrizione delle Case dei moribondi gestite dalla religiosa, deprivate volontariamente di ogni condizione di conforto, a cominciare dalla rinuncia a trattare i morenti con analgesici forti, sempre in nome di una mistica del dolore. È una concezione che si colloca agli antipodi della cultura che ha creato e diffuso gli hospice come luoghi privilegiati di accompagnamento verso la fine del percorso: contrastando i sintomi dolorosi e rispettando il diverso profilo morale dei morenti. Compreso il quanto e il come vogliono dare spazio al dolore nella loro vita. Anche all’interno della spiritualità religiosa che si ispira al cristianesimo oggi un’esaltazione del dolore come scala per accedere a livelli più alti di autorealizzazione è delegittimata.

I promotori delle cure palliative non possono che schierarsi in prima linea nel difendere un corretto uso dell’aggettivo che le qualifica. Per quanto possano essere giustificate le critiche culturali all’algofobia, queste non devono gettare ombra su quanto può e deve essere fatto per dar scacco al dolore, quando si accompagna al degrado della parabola esistenziale. Degli esseri umani; ancor più: di ogni animale senziente.

Roma, 17 febbraio 2021