Alla fine degli anni ’70 molte dinamiche di rinnovamento animavano la psichiatria che andava riorganizzandosi in senso territoriale e Sergio Piro, al centro del movimento e vulcanico nel pensiero, affidò ad un gruppo di giovani psichiatri il compito di prendere i primi contatti con le realtà di Pozzuoli.

Chi scrive operava in quel piccolo gruppo che iniziò così a misurarsi con i movimenti e le organizzazioni esistenti (casa del popolo, sindacati, gruppi di donne, giovani operatori culturali etc.) allo scopo di discutere insieme su come caratterizzare il centro di igiene mentale istituendo.

La straordinaria e diffusa capacità di produrre idee e proposte, e soprattutto di comprendere il vero e profondo significato della rivoluzione psichiatrica in atto, determinò una enorme trasformazione nel sapere comune in grado di modificare la domanda che da assistenziale diventava, progressivamente, di salute mentale.

E’ importantissimo rievocare questa vicenda che, insieme a tantissime altre simili, chiarisce quale fosse l’orientamento ispiratore di quel momento specifico, teso ad interpretare e concretizzare l’intuizione dello stretto legame esistente tra salute mentale e condizioni di vita per farlo diventare il vero nodo da sciogliere.

Ma ancor più si metteva in discussione il concetto stesso di malattia mentale come entità nosografica scientifica e si andava strutturando una lettura antropologica e politica in grado di incidere profondamente sulle impalcature analitiche, biologistiche, comportamentali etc. largamente egemoni nel mondo accademico e sanitario.

Con il tempo, e le trasformazioni epocali in ogni campo che sono succedute a quegli anni, quella radice fondante del movimento rimase minoritaria, pur se vivace.

Forse ciò avvenne anche per alcune sottovalutazioni, che il movimento esprimeva, nei confronti della necessità di contrastare i tanti tentativi che le istituzioni politiche formulavano per arginare la piena di un’operazione che minacciava di mettere in discussione le fondamenta del patto tra la psichiatria ed il potere.

Naturalmente ebbero il loro peso innumerevoli altri fattori ma sembra utile constatare che la “presa del potere” da parte della componente democratica della psichiatria, lo stesso diffondersi delle idee salienti della riforma in atto, contribuirono a creare esperienze importantissime, distribuite a macchia di leopardo, alcune tuttora vive e vivaci ed altre in un progressivo sbiadirsi, ma non ebbero la forza di radicare una dinamica di ricerca trasformativa continua e di erodere la delega repressiva originaria.

E’ probabile che si sia dimenticato il significato più autentico della presenza di studenti, artisti, operatori sociali, e della appassionata partecipazione di base nella genesi di quel movimento originario: la lotta al potere psichiatrico non può essere sostenuta dalla psichiatria stessa.

Oggi osserviamo una realtà ormai degradata, servizi che chiudono o ridimensionano le loro prestazioni, la loro progressiva trasformazione in strutture aziendali efficaci nella reintroduzione di principi operativi culturalmente inaccettabili, il sostanziale rifiuto del paziente fino al suo abbandono al farmaco.

Sia chiaro che non mancano sacche di resistenza culturale a questa deriva, non mancano operatori critici, sono presenti comunque elementi di contraddizione forte ed ostinata.

La responsabilità più chiara di questa deriva è da individuarsi nella struttura politico-economica che, in virtù della crescente concentrazione dei capitali nelle mani di organismi sovranazionali e di sfruttatori privati, privilegia l’aspetto commerciale della (malamente detta, avrebbe aggiunto Sergio Piro) malattia mentale trasformandola in fonte di guadagno ed in occasione di allargamento del mercato.

Il dato politico strutturale quindi cammina a braccetto con la rilettura regressiva e repressiva che caratterizza il sapere psichiatrico: si rinforza un’alleanza che se nel passato aveva uno scopo ed un’ideologia di riferimento prevalentemente  emarginante, ora acquista ulteriore potere nel configurarsi come enorme occasione di profitto di dimensione planetaria.

Di conseguenza diventano più pressanti i condizionamenti delle case farmaceutiche sui centri di ricerca che dipendono sempre più da interessi extraaccademici.

Come ulteriore ricaduta risulta decisiva l’influenza che il mercato ha sulle formazione dei giovani psichiatri, degli psicologi, degli operatori sanitari: la didattica deve servire il suo padrone.

La controrivoluzione psichiatrica, che, tra l’altro, non risparmia neanche gli ospedali psichiatrici giudiziari (questo problema, sia pur configurandosi come ultraspecifico, rappresenta forse il vero volto della psichiatria in toto perché mostra in tutta la sua crudeltà la reale brutale conseguenza del potere), ha colonizzato la cultura diffusa, l’opinione prevalente e ha orientato sempre più la domanda di salute mentale verso una declinazione farmacologica esclusiva.

Ed è proprio per contrastare l’egemonia culturale del biologismo, dell’analisi d’accatto, del comportamentismo e di ogni altra forma di sapere deterministico che escluda la possibilità di affrontare il disagio mentale in maniera trasformativa e critica, che abbiamo dato inizio ad un intervento nel centro della Napoli antica.

L’occasione propizia è nata da un’intuizione di un gruppo di disoccupati del collettivo Banchi Nuovi, e dalla adesione degli studenti di medicina e specializzandi in psichiatria (collettivo Sergio Piro), intorno al progetto di aprire un ascolto in grado di rileggere il disagio mentale in tutte le sue componenti, verificandone la comparsa e l’aggravarsi in parallelo alle sempre più scadenti condizioni esistenziali.

L’impostazione dell’intervento è consapevolmente fuori dalle letture psichiatriche prevalenti, tanto fuori da privilegiare e valorizzare le narrazioni vive della sofferenza psicologica.

E ciò ha anche una motivazione radicale: le parole della follia risultano afone per la psichiatria, perché questa, nel momento stesso della sua costituzione in soggetto parlante a nome e per conto della ragione, ha avuto la necessità di escludere la follia dalla logica del discorso.

La scissione tra follia e ragione appartiene pertanto ad un momento molto precoce del passaggio dalla condizione pre-riflessiva, dell’assenza di “parola”, al dominio del verbo: fu allora che la psichiatria, divenuta paladina della ragione, incarcerò la follia nell’ineffabile e nell’incomprensibile, e nessun carceriere libera il suo prigioniero, a maggior ragione quando il prigioniero costituisce la ragion d’essere del suo carceriere.

Da quel momento in poi la psichiatria ha sempre sostenuto l’ordine e l’ordinamento politico costituito nelle forme storicamente date.

Ed in questi giorni infatti assistiamo all’approvazione di provvedimenti normativi che castigano le già esigue risorse dei servizi psichiatrici, in primis quello riguardante la chiusura dei servizi negli orari notturni e nei giorni festivi, sostenuti dalla motivazione del contenimento della spesa.

Tali provvedimenti vanno nella direzione dell’abbandono funzionale alla proliferazione di interventi privati che, agendo al di fuori delle reti territoriali e del possibile controllo dell’utenza, medicalizzano e monetizzano il disagio.

Non si vuole difendere il servizio pubblico così com’è, scaduto a frettoloso ambulatorio di massa, impersonale e stigmatizzante; piuttosto lo si vuole  ridefinire come occasione per recuperare un rapporto dialettico tra disagio psicologico, sociale ed umano, come strumento di rielaborazione pragmatica collettiva.

Ma c’è anche un’ altra motivazione, oltre quella economica, che spinge a queste operazioni di distruzione della già scarsa presenza (qualitativa e quantitativa)  che i servizi psichiatrici garantiscono: neutralizzare le forme del residuo dissenso ideologico, emarginare i fermenti alternativi, ribadire il predominio culturale della logica aziendalistica del profitto sulla salute.

A tutto ciò si può opporre solo una voce che nasca dalla carne viva della sofferenza, che sia in grado di raccontare vissuti reali e di mostrare gli effetti dell’invasione farmacologica nel tessuto sociale, nelle relazioni, nelle capacità di reimpadronirsi della propria vita, nella salute delle persone.

L’intervento a lungo termine, cerca infatti di creare occasioni di ascolto e di alleanze, raccogliere le riflessioni più varie, confrontarsi con tutte quelle realtà del quartiere che operano a livello politico, artistico, creativo.

Il respiro che questo intervento sta cercando di darsi contempla anche l’istigazione all’espressione e al confronto con gli esclusi attraverso un gruppo che si è aggregato intorno ad un progetto artistico con la collaborazione della casa editrice “La città del sole”, che ci ospita e sostiene.

Lo straordinario valore di questa esperienza consiste nella sua capacità di creare un luogo nel quale si ricerca qualcosa di antecedente alla scissione tra follia e ragione, di cui si è accennato, quel pre-cogito nel quale si esperisce e dilata la propria personale relatività fino a dispercepirne i confini.

Questa esperienza ritengo abbia avuto un importante significato sulla formazione dei giovani specializzandi in psichiatria della Federico II di Napoli: li ha gettati in una condizione radicalmente differente rispetto all’assetto clinico cui sono convocati dall’Università, ha favorito il loro confrontarsi senza la protezione della falsa cultura scientista.

I due momenti dell’intervento nel quartiere tendono ora a confrontarsi per ricercare modi di confluenza e per costituirsi come dimensione viva e critica di presenza.

La direzione complessiva dell’intervento orienta verso la formulazione di conoscenze in grado di individuare le funzioni delle istituzioni, rilevarne le insufficienze culturali, analizzarne la risposta, opporre una diversa domanda riformulata sul diritto alla salute, con tutte le implicazioni politiche che tale riformulazione comporta.

In assenza di questo movimento ogni ipotesi di correzione o di controllo intraistituzionale rischia di diventare improduttiva e di trasformarsi in elemento di  competizione tra gli organismi politici nella loro funzione di rappresentanza istituzionale: senza la comprensione e la elaborazione culturale di chi soffre i correttivi di legge  sono destinati cioè solo a determinare nuovi equilibri e ridistribuizioni marginali dei livelli di potere da gestire.

Non si tratta soltanto di lottare contro la chiusura e la mortificazione dei servizi psichiatrici, contro la prospettiva che la sottrazione di una disponibilità verso i pazienti psichiatrici (e psichiatrizzati) spingerà ad affrontare le proprie crisi in una profonda solitudine e quindi aumenterà il numero dei ricoveri e dei T.S.O, e  di conseguenza anche della spesa pubblica…

Piuttosto si tratta di riformulare i problemi del disagio umano senza il comodo alibi della follia, di ricercare le vie di pratiche trasformative in grado di sostenere l’acquisizione del diritto alla salute e del diritto ad una conoscenza demistificata delle dinamiche che la minacciano.

 

Enrico De Notaris

Napoli 10/5/2012