Di Maurizio Portaluri

“Pensieri contagiosi” (Sandro Spinsanti, Lubrina Bramani Editore, novembre 2020, pp125) è una collettanea di dodici scritti che il famoso bioeticista italiano ha prodotto dall’insorgere della pandemia, quattro pubblicati sul suo blog (www.sandrospinsanti.eu), due interviste rilasciate a  giornali, tre articoli in rivista e quattro espressamente scritti per il libro, il tutto raggruppato in tre capitoli: Sulla scena della pandemia, Professione curante, Le modalità della cura.

I

Non possiamo ritornare alla normalità di prima perché al suo interno si annidavano le cause e i fattori favorenti gli effetti distruttivi della pandemia. Questo è il filo conduttore del primo capitolo.

“L’emergere di ciò che era sommerso e che è stato la causa dei problemi che abbiamo dovuto affrontare, ci fa prendere coscienza che dobbiamo evitare di tornare come prima. E’ necessario introdurre dei cambiamenti, in quanto nella normalità erano latenti quei presupposti della cattiva cura che l’emergenza ha fatto affiorare”. I cambiamenti di scenario che sono necessari devono introdurre una “normalità diversa”.

“La pandemia ha fatto emergere la disfunzione di sistemi di sanità pubblica a profilo regionale a discapito della unitarietà degli interventi” “Non a caso i problemi più gravi sono emersi laddove la programmazione aveva privilegiato gli ospedali, a danno della organizzazione della medicina del territorio e delle cure domiciliari”.

Negli ultimi decenni è intervenuto un cambiamento nello scenario della cura che il sociologo americano Eliot Freidson aveva chiamato tramonto della “dominanza medica” con un risvolto nei riguardi dei pazienti, che hanno avuto progressivamente accesso all’empowerment, e l’altro nei riguardi di politici e amministratori: “dalla ‘riforma della riforma’ sanitaria in poi – dagli inizi degli anni ’90 – il programma dell’aziendalizzazione ha portato a una sempre maggiore subalternità dei professionisti medici rispetto alla politica politicante”.

“Lo sconvolgimento provocato dalla pandemia offre ai professionisti medici ed esperti di sanità l’opportunità di assumere il ruolo che spetta loro mettendo la salute dei cittadini al centro e facendo retrocedere altri interessi. Compresi quelli economici centrati sull’idolatria del budget.”

In passato gli ammalati si affidavano al detto “in scienza e coscienza” del medico ma oggi non è più così, “non è più chiesta loro una fiducia cieca”. Ma in epoca di pandemia il principio del rispetto dell’autonomia della persona malata è completamente saltato e anche l’informazione dei familiari di pazienti in terapia intensiva e RSA è stata assente. Le cure palliative, che erroneamente e forzosamente vengono confinate alle malattie oncologiche, sono anch’esse scomparse in questo frangente: “Nei reparti di terapia intensiva quasi mai coesistono perizia rianimatoria e competenza palliativistica … morire male di COVID19 è una realtà dai numeri spaventosi che disegna il profilo di una tragedia dentro la tragedia” (dall’intervento dell’on Giorgio Trizzino nell’intervento parlamentare in occasione del voto di fiducia al Decreto). “Anche negli hospice la morte è avvenuta in stato di abbandono” e le RSA sono state usate come hospice: “ma non in senso proprio, bensì come moritorio”. Molti clinici che si riconoscono nel progetto Choosing Wisely che raccomanda di “non intubare pazienti fragili senza aver parlato con i familiari riguardo alle direttive anticipate del paziente, ogniqualvolta è possibile”. Il documento di alcune società di cure palliative e di emergenza-urgenza, “Come comunicare con i familiari in condizioni di completo isolamento” del 18 aprile 2020, estende le “cure rispettose” non solo ai malati ma anche ai familiari.

“Le conseguenze della pandemia saranno modulate dalla narrazione che sapremo fare di essa”. Le Narrazioni che circolano numerose cercano i colpevoli, incolpano gli “untori” (“ricercatori che hanno lasciato sfuggire il virus, cospiratori politici, forze oscure assetate di potere o di denaro…”), additano le istituzioni. Poi ci sono le narrazioni “di chi riconduce le sofferenze attuali a malesseri strutturali”: “credevamo di essere sani in una terra malata” ha detto efficacemente papa Francesco in piazza san Pietro.

Le acquisizioni della bioetica di questi ultimi decenni hanno visto “il passaggio da un’etica unidirezionale a una tridimensionale. Dal principio unico: ‘il medico deve fare il bene del paziente deciso dal professionista in scienza e coscienza’, si è passati ai tre principi del bene del paziente (sempre valido!), più il rispetto della sua autonomia, più le esigenze della giustizia sociale”. Un mezzo per rispettare l’autonomia del paziente è fornito dalla medicina narrativa definita “lo strumento fondamentale per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura personalizzato”. (Documento di consenso dell’Istituto Superiore di Sanità sulla Medicina Narrativa, giugno 2014). Ma nella pandemia la partecipazione dei malati alle decisioni è come se fosse diventata superflua e persino “sono emerse, con brutalità, proposte di esclusione sistematica di pazienti – troppo fragili, troppo vecchi, troppo compromessi – da procedure salvavita”.

“La crisi dell’epidemia da Covid19 ha portato allo scoperto carenze macroscopiche: di personale, di posti letto, di programmi per le emergenze (in termini tecnici: preparedness). È emersa la disfunzionalità dei sistemi di sanità pubblica a profilo regionale, a discapito della unitarietà degli interventi. Per non parlare dello sparigliamento dei luoghi in cui erano erogate le cure… Finito il tempo dei medici eroi, sarà il momento dei medici come esperti programmatori del servizio sanitario pubblico”.

Si deve “spostare il centro di gravità dell’offerta sanitaria dall’ospedale al territorio; privilegiare la gestione della cronicità: ecco il cambiamento da introdurre in quella che possiamo chiamare la normalità. ‘Il medico che ti salva la vita’, secondo il convincente saggio di Atul Gawande, non è il grande chirurgo o lo specialista-luminare, ma il medico generico che ti segue nel tempo e pratica la “medicina incrementale’”.

La pandemia ha messo in discussione molte certezze: l’ospedale come luogo sicuro, la lunga cronicità come vittoria della medicina, il diritto del malato di sapere che trattamento sia a lui riservato. “A posteriori ci diciamo che non possiamo essere più impreparati di fronte alla pandemia… la ‘preparedness’ – cioè il sistema per prevenire, proteggere, reagire e recuperare di fronte a un’emergenza sanitaria – è stata per tempo messa in agenda, ma purtroppo abbandonata. Lo denunciava il ‘Global Pareparedness Monitoring Board’, incaricato di redigere il Global Risk Report, nel settembre 2019”.

La spiritualità ci può aiutare a produrre miglioramenti nel nostro modo di vivere, le calamità e i disastri da soli non bastano. “Se si cerca su internet ‘coronavirus e spiritualità’ escono più di 100 milioni di voci”. Alcune sono l’espressione peggiore della spiritualità come quella che spiega l’epidemia come castigo divino: “sembra che una certa forma di autoproclamatasi spiritualità religiosa non riesca a desistere dall’usare le proprie interpretazioni della realtà come arma contundente per colpevolizzare le persone, nonché per attribuire impropriamente alla divinità comportamenti vergognosi”. La spiritualità è ben altro! Dobbiamo recuperare ciò che “qualcuno aveva chiamato umanizzazione, qualcun altro semplicemente buona medicina o cura giusta. Anche la dignità della morte deve essere recuperata per i morenti e per chi rimane”

II

Il capitolo sulla Professione Curante si apre con una trattazione sulla eticità del fenomeno di quelli che Franco Arminio chiama “i migranti in camera da letto”. Siamo tutti affidati dalla mitologia alla dea Cura e tutti ne abbiamo bisogno in varie fasi della vita, soprattutto l’ultima. E anche se come dice Joseph Conrad, “si vive come si sogna: soli”, spesso capita che la cura ce la scambiamo, “alternativamente secondo il bisogno viene data e ricevuta”, confidando che quando toccherà a noi troveremo chi ce la donerà, come confida Gerasim, il servo fedele di Ivan Il’ic, “’Tutti moriremo. Perché non darsi un po’ da fare?’, aveva detto, significando in tal modo che egli non si stancava di quella sua fatica (‘a volte per intere nottate gli teneva le gambe’) proprio perché la sopportava per un uomo morente, e sperava che anche per lui qualcuno, a suo tempo, avrebbe sopportato la stessa fatica”. (La morte di Ivan Il’ic, L. Tolstoj).

La cura delle persone non autosufficienti produce gravi ingiustizie: sguarnisce i paesi d’origine di uomini e donne, badanti e infermieri, questi ultimi poi spopolano anche i servizi sanitari dei loro paesi natii.  Certo le badanti vanno a casa di chi può permettersele, chi non può va in RSA, ma anche qui si consuma un’altra ingiustizia che la pandemia ha messo in luce. “Cominciamo a domandarci: non abbiamo niente di meglio da offrire alle persone che hanno bisogno di appoggiarsi alle cure esterne? È possibile immaginare delle residenzialità più leggere e diffuse, delle condizioni in cui l’autonomia residua non sia annullata ma valorizzata? L’isolamento in cui molti ospiti delle RSA sono stati costretti dalla pandemia ad andare incontro alla fine ha portato all’estremo condizioni di disagio che pure esistono in tempi di normalità”.

L’etica può aiutare a migliorare le cure anche attraverso il miglioramento dei rapporti sociali. È invalsa in questi anni la pratica della “medicina difensiva” per fortuna non condivisa da tutti i medici, ma è pur vero che atteggiamenti aggressivi, tendenti a trovare il colpevole di insuccessi terapeutici anche di quelli prevedibili, ha intaccato la fiducia tra medico e paziente. Il rispetto dell’autodeterminazione della persona malata ed il principio di equità nella ripartizione delle risorse vengono raccolti dalla già citata raccomandazione da Choosing Wisely.  “La protezione garantita dalle regole giuridiche si aggiunge a quella che proviene da rapporti sociali sotto il segno dell’etica senza sostituirsi ad esse. Lo fa tanto più efficacemente quanto più si adegua al modello ideale che un gruppo di giuristi ha chiamato ‘diritto gentile’”.

La pandemia ha imposto in certi momenti delle “scelte tragiche” perché quando le risorse sono scarse bisogna scegliere chi ne ha più bisogno. E qui Spinsanti considera un atto di responsabilità le linee guida della SIARTI sui trattamenti intensivi pubblicati all’inizio della pandemia che hanno suscitato un dibattito acceso in Italia ed anche all’estero: “l’allocazione in un contesto di grave carenza (shortage) delle risorse sanitarie deve puntare a garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiore possibilità di successo terapeutico: si tratta dunque di privilegiare la maggiore ‘speranza di vita’”. Nulla a che vedere con la storia della protagonista del film La scelta di Sophie (1982) dove la scelta è tra due figli per salvarne uno dallo sterminio nazista, o con lo scenario di guerra in cui si scelgono tra i soldati da curare quelli che possono tornare al fronte. Non è una scelta utilitaristica quella degli anestesisti italiani, per mettersi a posto con la legge, ma una assunzione di responsabilità di fronte alle persone malate. Ma c’è una nota originale che Spinsanti aggiunge a questo punto e che non vale, per chi scrivere, solo per la forza dell’onda d’urto della pandemia ma si applica a tutto il servizio sanitario da quando prevalgono su tutto la politica di riduzione della spesa pubblica e le esigenze di budget (“l’economia quale scienza triste, si affaccia per definizione, quando non c’è tutto per tutti”): la scarsità di risorse “dipende certo dalle scelte di politica sanitaria… ma anche dai cittadini che quelle politiche hanno avallato, sedotti dalla promessa di diminuzione delle tasse. Per non parlare dei tanti evasori che hanno fatto mancare le risorse da investire in sanità”.

La Professione curante è stata raccontata nella pandemia da libri che risentono nella loro genesi della nuova epoca dominata dai social. Come Emozioni virali (Il Pensiero Scientifico Editore, 2020) che raccoglie voci di numerosi medici che durante il periodo dell’emergenza pandemica hanno condiviso il loro vissuto in una pagina Facebook alla quale erano iscritti quasi 100.000 professionisti. Il libro non si pone solo nel solco di quel genere che in inglese viene chiamato misery report “ovvero di racconti di sofferenza indotta dalle patologie e dai percorsi di cura”. Ma il gruppo condivide anche “affetti collaterali” che le situazioni estreme fanno emergere tra colleghi e con i malati. Ed anche uno scambio scientifico delle prime impressioni ed esperienze su una malattia sconosciuta e sulla quale non c’erano ancora evidenze scientifiche consolidate. La conoscenza medica si fa dalla osservazione iniziale e condivisa. Una comunità fatta di medici che si liberano dalla sindrome di onnipotenza e sperimentano la condizione del “guaritore ferito”, per “indicare l’intima partecipazione alla fragilità che si intende guarire”.

III

Come si modificheranno le modalità della cura? Nella pandemia si è accresciuta la crisi della comunicazione: “il paradosso è che mentre si accrescono gli strumenti per la comunicazione, questa si impoverisce perché sacrifica ciò che passa attraverso i sensi stessi”. Inoltre “la pratica medica, tutta rivolta all’efficacia della prestazione, si sente in tal modo autorizzata a essere sempre più fredda, in quanto la calda presenza di altri professionisti compensa le sue carenze”. “Come ogni amore, il rapporto tra chi eroga le cure e chi le riceve è una relazione sensuale, impregnata di fisicità”. Per questo qualunque avanzamento tecnologico non potrà mai far cessare l’esigenza di contatto.

La scarsità delle risorse porta con sé una grave insidia: “far dipendere la scelta del medico dalla qualità morale – vera o supposta – della persona malata”. “Non possiamo accettare che la cura sia legata al merito, stabilendo una gerarchia tra persone più o meno degne”.

Il distanziamento ha influito anche sull’approccio del medico alla persona ammalata. Se non si può effettuare una cura con i cinque sensi, come avviene nelle terapie intensive ma anche con il malato sotto il “pallone” del respiratore, allora bisogna Abbracciare con lo sguardo, come dice il titolo di un libro in cui quattro medici che durante l’emergenza sono stati in servizio nell’ospedale San Giovanni Bosco di Torino cercano “modi inediti per essere vicini ai pazienti che accanto a loro erano chiamati ad affrontare una malattia nuova e imprevedibile negli esiti di vita e di morte”. Così lo sguardo può diventare l’unica via di contatto anche se l’esperienza più tradizionale, prima della pandemia, è quella sulle strategie che medici e infermieri adottano per non incrociare lo sguardo dei pazienti. Se non si abolisce la prossimità che almeno lo sguardo consente, anche la tecnologia potrà essere piegata ai bisogni fondamentali, come quando il medico presta il suo telefonino a un paziente per videochiamare un parente rimasto a casa e permettere loro di salutarsi un’ultima volta.

L’ultimo scritto del libro potrà apparire eccentrico: per il nuovo progetto di salute più che la razionalità potrà la gastroenterologia. Fin dal IV secolo il monaco Evagrio Pontico punta il dito contro il vizio della gastrimargia. “Si tratta di mettere un limite alla follia del ventre, inteso come simbolo del consumo a tutti i costi…Noi possiamo intendere il contrasto alla gastrimargia come una terapia rivolta al mal vivere tout court. Non saremo mai sani se il nostro ventre cresce a dismisura e non conteniamo la nostra ricerca di ‘sempre di più’”.

In fondo è proprio vero, nei mesi di lockdown abbiamo imparato che di molte cose che acquistiamo e consumiamo ogni giorno possiamo tranquillamente fare a meno.

1 febbraio 2021