L’epidemiologia è uno strumento conoscitivo difficile da maneggiare per i contrastanti interessi che vi gravitano intorno: gli ambientalisti la invocano per dimostrare che alcune attività umane fanno male alla salute, il sistema, cioè il potere politico, controlla i depositi dei dati, i tempi ed i modi delle loro analisi.

Le cose tuttavia stanno cambiando. Molti dati sono aperti a tutti (open data), ma anche le analisi pubblicate dal sistema sono disponibili per utili interpretazioni. Infatti, osservando i dati pubblicati dalle Agenzie controllate dal potere (sempre democratico, s’intende) è possibile sollevare degli interrogativi, notare delle omissioni, chiedere degli interventi di salute pubblica.

L’attività epidemiologica che si occupa della distribuzione della salute e della malattia nello spazio geografico, nel tempo e recentemente anche in rapporto a ciò che respiriamo ed ingeriamo, permette di individuare popolazioni più a rischio di malattia o attività umane che costituiscono un pericolo per la salute. Si tratta di una conoscenza che si realizza a posteriori dello svolgersi di una o più attività umane, tuttavia se la sua produzione non è sporadica e viene continuamente aggiornata, può fornire utili indicazioni per migliorare la salute della popolazione. Certamente il modo migliore per tutelare la salute di singoli o gruppi è quello di evitare che essi vengano in contatto con sostanze notoriamente nocive senza attendere molti anni per ottenere prova della nocività di quelle sostanze. In alcuni casi conoscenze prodottesi in un particolare contesto geografico possono essere utilizzate in un altro simile. Riguardo alla produzione energetica con uso di carbone si è voluto replicare anche a Brindisi studi già realizzati altrove confermando quanto già noto ma ritardando di anni l’assunzione di decisioni. Un altro esempio è rappresentato dagli studi sugli effetti sanitari delle attività marittime sulle popolazioni che abitano nei pressi di aree portuali: quelle conoscenze possono essere utili per evitare danni in altre popolazioni che vivono in contesti simili attuando misure di prevenzione primaria senza richiedere ed attendere nuovi studi.

I Siti di interesse nazionale e le aree a rischio di crisi ambientale come Brindisi (in Puglia anche Taranto e Manfredonia) sono oggetto di maggiore attenzione da parte delle autorità oltre che, per fortuna, da parte di ricercatori indipendenti che non si fanno dettare né i tempi né l’agenda delle loro attività (ma sono ovviamente osteggiati ed emarginati in tutti i modi anche se non sempre con successo). Ma nonostante i numerosi studi le evidenze emerse non sono quasi mai oggetto di approfondimento e di conseguenti misure da parte delle autorità. E’ difficile comprendere le ragioni di tale comportamento. Tra le motivazioni si può con certezza includere la preoccupazione, in particolare in aree industriali, di non nuocere alle attività produttive che emettono più inquinanti nell’ambiente e che sono anche le più forti economicamente. Tuttavia questa preoccupazione dovrebbe essere scemata negli ultimi anni da quando cioè gli stessi studi hanno chiarito che la quota di malattia attribuibile all’inquinamento industriale esiste ed è stimabile con buona approssimazione e che comunque sono importanti e meno soggette a controlli anche altre fonti di pericolo per la salute umana. Si pensi al traffico veicolare, portuale e al riscaldamento domestico in particolare quello che utilizza biomasse. Inoltre alcune autorità temono che soffermarsi su evidenze epidemiologiche (si pensi alla fine degli anni 2000 allo strano eccesso di mortalità per tumore al polmone nelle donne di Ceglie Messapica mai approfondito) possa nuocere al buon nome della città e danneggiare la sua attrattività turistica scoraggiando quanti fossero intenzionati a risiedervi per periodi più o meno lunghi (è nota la propensione di pensionati nord europei a trasferirsi in Puglia).

Nei numerosi studi pubblicati su Brindisi emergono alcune criticità che non hanno ricevuto la dovuta attenzione. Nello studio Forastiere (studio di coorte pubblicato nel 2017 e relativo agli anni 2002-2013) alle emissioni industriali sono associati più malattie respiratorie e tumori al polmone (e questo è abbastanza comprensibile) ma ci sono anche più tumori del pancreas e mielomi multipli. Tumori questi ultimi dalla eziologia non chiarissima ma comunque segnalati in eccesso rispetto alla esposizione industriale. Il dato avrebbe bisogno di un approfondimento. Anche sulla salute riproduttiva lo studio tace su un aspetto che in premessa si era ripromesso di analizzare: le gravidanze abortive. In sede di presentazione dello studio l’ARESS promise di colmare subito questa lacuna, ma sono passati oltre due anni e non se ne è saputo più nulla. Ma lo studio Forastiere contiene altre indicazioni che meritavano approfondimento come l’aumento di mortalità per tumore della mammella col ridursi dello stato socio economiche delle donne. Anche il registro tumori ha fornito indicazioni rimaste senza seguito come l’aumento di incidenza di tumori cerebrali nel capoluogo rispetto al resto dell’area a rischio. Più recentemente lo studio SENTIERI, che osserva la popolazione del capoluogo fino al 2013, mette in evidenza degli eccessi di mortalità per le donne in generale e per malattie respiratorie e tumore al polmone in particolare che fanno il paio con una mortalità generale delle donne nella provincia di Brindisi tra le più alte in Italia, come evidenziato nel febbraio scorso da uno studio sulle Diseguaglianze di salute pubblicato dal Ministero della Sanità.  Insomma una questione di genere in tema di salute si appalesa chiaramente nei risultati di due studi nazionali ma nessun dibattito locale ne è seguito. Le attività portuali contribuiscono per il 24%, secondo ARPA Puglia, all’inquinamento atmosferico di Brindisi e recentemente uno studio condotto a Civitavecchia ha mostrato eccessi di tumori al polmone e malattie neurologiche degenerative in un raggio di cinquecento metri dal porto. Dato interessante che non necessita di un ulteriore studio a Brindisi (nonostante la ritenuta diversità della struttura e delle attività dei due porti, scarsamente rilevante ai fini della presente riflessione) ma solo di un’attività di controllo sui combustili (Capitaneria di Porto) e di un ammodernamento in senso ecologico delle banchine (elettrificazione).

Un commento a sé merita la relazione annuale di ARPA Puglia sulla qualità dell’aria 2018. Il ruolo di questo tipo di rapporti è stato depotenziato da due evidenze scientifiche ormai consolidate. La prima riguarda il fatto che al di sotto dei limiti di legge si registrano ugualmente effetti avversi per la salute. Il secondo che i limiti di concentrazione in aria per i più importanti inquinanti suggeriti dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sono molto più bassi di quelli fissati dalla legge italiana. E quasi tutti i dati analizzati e pubblicati da ARPA ancorché al di sotto dei limiti di legge sono superiori a quelli della OMS facendo sorgere qualche dubbio sulla utilità del lavoro di tale ente se interpretato in chiave esclusivamente notarile.

Dati meritevoli di approfondimento ve ne sono molti altri. Si pensi agli eccessi di mortalità generale emersi per il Comune di Mesagne che fanno il paio con una simulazione di ARPA di qualche anno fa sulla concentrazione di IPA nella città messapica molto simile a quella registrata a Taranto. Ma anche qui non vi è stato un apprezzabile seguito conoscitivo.

Resta aperta, poi, una importante questione: una volta effettuati studi di impatto come quello su Cerano e lo studio Forastiere (o come quelli già svolti a Taranto in sede giudiziaria e recentemente rinnovati dalla Regione con incarico all’OMS) quale è il livello di danno accettabile, cioè in altri termini, quante malattie e quanti decessi la popolazione può accettare per una determinata attività alla luce dell’etica della Costituzione che definisce quello alla salute un “diritto fondamentale”? E chi decide questo livello, i tecnici, i rappresentanti istituzionali, la popolazione? Non sarebbe utile adottare la metodologia della ricerca partecipata (come negli esempi di Sarroch e Manfredonia) in cui le autorità si impegnano, prima dell’effettuazione dello studio di impatto e sentita la cittadinanza attiva sulle domande di ricerca, ad adottare decisioni politiche per ogni scenario che potrebbe risultare al termine dell’indagine? 

Questo breve excursus semplicemente per dire che una riflessione politica che voglia tener conto dello stato di salute della popolazione potrebbe avvalersi da subito di una gran messe di dati non solo per non rinviare decisioni a futuri approfondimenti scientifici di specifici aspetti (pur necessari) ma, sperabilmente, per intervenire su settori dell’assistenza sanitaria che alcuni di questi dati consiglierebbe di andare ad osservare. Si pensi alla relazione tra screening, salute materno infantile e consultori da un lato e i dati sulla salute della donna e sulle malformazioni di cui si è detto dall’altro.

A scapito di un deciso intervento politico gioca la complessità della lettura dei dati epidemiologici e la loro incertezza statistica. Ma qui bisogna chiarire che la politica non deve delegare alla scienza in genere e a quella epidemiologica in particolare le responsabilità che le sono proprie ma deve cogliere negli indizi che i dati statistici suggeriscono motivi di approfondimento ed anche di intervento, preventivo o correttivo. Inoltre quando le autorità e i ricercatori coinvolgono preliminarmente i cittadini nella formulazione delle domande di ricerca, rendono un importante servizio alla ricerca medesima, alla capacità di intervento della politica ed alla partecipazione democratica.

Maurizio Portaluri

13 settembre 2019