Lavinia Bifulco (Università di Milano Bicocca)

Stefano Neri (Università Statale di Milano)

Angelo Salento (Università del Salento)

Una pandemia è un fatto sociale: la sua evoluzione, i danni che produce, persino la sua stessa origine dipendono certo da un virus, ma anche dalle modalità dell’interazione sociale e dalle piattaforme che la organizzano. Contano la densità degli scambi sociali, le reti di trasporto, le strutture sanitarie, la distribuzione del reddito, le condizioni abitative e di lavoro. Per questo motivo, una pandemia è una fonte di lezioni importanti, non soltanto per gli epidemiologi.

La pandemia è una catastrofe planetaria, ma paradossalmente viene affrontata su scala nazionale. L’Italia ha avuto la sfortuna di essere pioniera involontaria, in Europa. Abbiamo ospedali schiacciati dal flusso di pazienti in condizioni critiche, una quantità enorme di ammalati lasciati in casa, o in residenze assistite. Il numero reale dei decessi si può desumere soltanto dalle statistiche generali, perché la maggior parte dei decessi da Covid-19 non sono censiti. E la situazione è molto diversa nelle diverse regioni, dopo i processi di decentramento, abbiamo di fatto venti sistemi sanitari.

Quando si fronteggia un’emergenza di questo tipo, la prima questione che emerge, comprensibilmente, è di ordine quantitativo: perché ci sono così pochi posti negli ospedali, e specialmente nei reparti di terapia intensiva? Perché non c’è un numero sufficiente di medici e paramedici? La situazione italiana, sotto questo profilo, è comparabile a quella di altri paesi euro-mediterranei e, per certi versi, a quella del Regno Unito. Il regime di austerity dopo la crisi del 2008 ha portato una riduzione delle risorse per la sanità, che in Italia non sono mai state abbondanti. Nel 2018, la spesa sanitaria era ferma al 6,5% del PIL (-0,2% rispetto al 2008), e il divario con altri paesi, come Francia e Germania, è cresciuto di 2-3 punti. Fra il 2001 e il 2007 la spesa pro-capite era cresciuta del 5%, ma fra il 2008 e il 2018 il tasso di crescita è stato pari a zero. La spesa sanitaria pro-capite è pari a circa 2.500 dollari, nei paesi OCSE la media è di circa 4.000 dollari. Fra il 2008 e il 2017 il personale sanitario è stato ridotto di 38mila unità (-6,3%). L’età media dei medici è passata da 43 anni nel 2001 a 51 nel 2017, e oggi il 50% dei medici hanno più di 55 anni. I posti letto negli ospedali sono passati da 7,2 ogni 1.000 abitanti nel 1990 a 4,7 nel 2000 fino a 3,2 nel 2017. La media OCSE è di 4,7 (e la Francia ne ha 6, la Germania 8). Le stime di ANAAO-ASSOMED dicono che nel periodo 2018-2025 mancheranno 16.700 medici, con le punte più alte in medicina di emergenza, pediatria, anestesia, rianimazione e terapia intensiva. I divari territoriali sono esasperati: fra il 2000 e il 2017 gli investimenti medi annuali pro-capite sono stati di 183 euro nella Provincia autonoma di Bolzano e di 16 euro in Calabria.

Man mano che l’emergenza si dipana, tuttavia, ci accorgiamo che una parte consistente del problema non risiede negli ospedali: è in quel che accade prima che il paziente entri in ospedale e quando viene dimesso. La lezione della pandemia, quindi, diventa anche qualitativa: riguarda l’organizzazione e la concezione stessa del sistema sanitario. La pandemia ci mostra chiaramente che manca la capacità di produrre condizioni di salute nel territorio, prima ancora che negli ospedali. Eppure, l’idea di sanità alla base della fondazione del Sistema Sanitario Nazionale, nel 1978 (Legge n. 833), non era di offrire primariamente prestazioni ospedaliere. I principi-base erano il rilievo primario della prevenzione; l’investimento sulla medicina generale; la diffusione di servizi sanitari nel territorio, concepito come lo spazio in cui si produce la salute dei cittadini. Il fulcro del sistema, nell’impianto originario, era dunque la rete di medici di medicina generale, responsabili della cura globale della persona; mentre l’ospedale – istituzione destinata alla riparazione del corpo malato – avrebbe svolto un ruolo sussidiario.

È difficile dire se quella impostazione abbia mai avuto un seguito coerente. Quel che è certo è che, fra gli anni ’80 e ’90, l’attenzione dei regolatori si è focalizzata su obiettivi di efficienza e riduzione dei costi. Quando, nel 1993, le unità sanitarie locali sono state trasformate in aziende «con autonomia imprenditoriale», i modelli di gestione del cosiddetto “New Public Management” sono stati adottati anche nell’ambito sanitario. Nel 1995 è stato introdotto un sistema di remunerazione a tariffa, il DRG (Diagnosis Related Groups), utilizzato per le attività di ricovero ospedaliere. La centralità assunta da questo meccanismo di remunerazione delle strutture sanitarie ha penalizzato le attività di prevenzione e le cure primarie, che difficilmente possono essere valutate secondo una logica di prodotto, tipica del DRG.

A partire dagli anni ’90 molte Regioni hanno reclamato più ampi margini di autonomia nella gestione sanitaria, e la riforma costituzionale del 2001 ha portato il decentramento sanitario alle estreme conseguenze. Alcune Regioni hanno usato l’autonomia per trasformare la sanità in un quasi-mercato. In Lombardia, una delle Regioni che hanno spinto di più in questa direzione, il privato assorbe il 40% della spesa ospedaliera e il 43% della spesa per visite ambulatoriali. Insieme all’adozione dei DRG, lo sviluppo di un quasi-mercato sanitario ha portato all’indebolimento della medicina territoriale e di comunità, a vantaggio delle attività ospedaliere. Nel caso-limite Lombardo, l’adozione del modello cosiddetto “purchaser-provider”, importato dal Regno Unito, ha ridotto di fatto le aziende territoriali a un ruolo di pianificazione, acquisto e controllo di prestazioni. I medici di medicina generale, che dovrebbero essere il fulcro del Sistema, hanno oramai un rapporto molto debole con il resto del Sistema sanitario, e quindi hanno con i pazienti un rapporto sostanzialmente duale. Se oggi sono pochi i laureati in che vogliono specializzarsi in medicina generale, ciò è dovuto anche alla marginalità nella quale questa professione è stata di fatto relegata dai processi di managerializzazione della sanità.

L’emergenza da Covid-19 mostra molto chiaramente, dunque, quel che occorre e che manca: un congruo numero di posti-letto nei reparti di terapia intensiva, certamente, ma anche la capacità di trattare i pazienti prima che necessitino di ricovero, e di assicurare una convalescenza sicura a domicilio. Inclusa la capacità di assicurare i test che occorrono a questo scopo. Naturalmente, la pandemia ci ricorda anche l’importanza della prevenzione, che la Legge 833 metteva in primo piano. L’approccio consumeristico alla sanità ha fatto sì che l’attenzione per la prevenzione declinasse, e oggi la spesa per l’Assistenza collettiva in ambiente di vita e di lavoro è pari appena al 4% del totale della spesa per i livelli essenziali di assistenza (LEA).

Questa deriva, che nella sanità è del tutto evidente, riguarda in realtà molti settori dell’economia e del welfare: negli ultimi trent’anni, il consumo individuale è stato concepito come chiave di volta, a detrimento dei beni e dei servizi a uso collettivo, radicati nel territorio. In definitiva, è questa la più importante lezione della pandemia: è il territorio lo spazio che produce le condizioni di salute, e la salute non si guadagna individualmente. Fuori da uno spazio in grado di garantire condizioni di salute e di benessere, non esiste la possibilità di rimanere sani.

Pubblicato sul Quotidiano di Puglia il 18 aprile 2020