E’ di circa due mesi fa la notizia dell’ultima indagine penale, in ordine di tempo, a carico dei dirigenti dell’Ilva per l’inquinamento causato alla città di Taranto ed al quartiere Tamburi in particolare dallo stabilimento di proprietà dell’azienda della famiglia Riva.
Grande risalto veniva dato, in specie, alla perizia (subito diventata, nel sobrio lessico giornalistico, “la superperizia”), da espletarsi nelle forme dell’incidente probatorio, con la quale i P.M. intendono cercare le fonti di emissione delle sostanze nocive (a partire dalla famigerata diossina nel formaggio) rinvenute negli animali, nei terreni e perfino nella falda acquifera del territorio limitrofo alla fabbrica.
In realtà, da un’analisi appena meno superficiale del procedimento penale in questione emergerebbe la vera “notizia” contenuta in questa vicenda, in ossequio al noto assunto per il quale non è il cane che morde l’uomo che fa notizia, ma l’uomo che morde il cane.
Che i proprietari e i dirigenti di un insediamento industriale col pedigree ambientale di quello Ilva di Taranto finiscano sotto indagine è, dovrebbe essere, nell’ordine naturale delle cose (ferma restando la regola costituzionale, di giudizio e di trattamento, di presunzione di non colpevolezza che deve garantirsi anche agli indagati in questione); esattamente com’è naturale che il cane morda l’uomo. Ergo, per la cronaca, per molti versi, dovrebbe trattarsi di una “non notizia”.
L’elemento che, invece, dovrebbe indurre assai maggiore attenzione, per non dire scalpore, è costituito dagli addebiti mossi a queste persone, più precisamente dalle specifiche ipotesi di reato in relazione ai fatti loro contestati, almeno a quel che si è appreso dai media.
Si tratta, infatti, fondamentalmente di due previsioni incriminatrici, tra le quali, a parte il “disastro colposo” (norma di applicabilità verosimilmente assai problematica in una fattispecie del genere, anche perché fortemente indeterminata nelle condotte che punisce), brilla di luce propria l’illecito di “getto pericoloso di cose”, previsto dall’art. 674 c.p.
Il reato in questione, come la quasi totalità dei reati contro l’ambiente, è una contravvenzione (che, com’è noto, nel nostro ordinamento penale costituisce il tipo di reato “di second’ordine”) ed è punita con la pena draconiana dell’ “arresto fino ad un mese” o dell’ “ammenda fino ad € 206”.
In un Paese, in una società con una larva di coscienza civile ed ecologica sarebbe quella relativa al reato ad esser percepita come la vera, clamorosa notizia, nell’ultimo “infortunio” penale in cui è incappata l’Ilva a Taranto.
Per quell’ipotetico Paese, per quella società virtuale, l’idea che l’attuale stato ambientale di una città come Taranto, laddove, all’esito di un processo, la responsabilità di questo dovesse esser attribuita anche sotto il profilo penale a qualcuno, possa esser punito con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda fino ad € 206 dovrebbe lavere lo stesso impatto, quantomeno in termini di “stupore”, del caso dell’uomo che morde il cane.
E questa “stupefacente” situazione, ovviamente, non può esser ascritta in alcun modo ad una scelta dei magistrati che indagano, ma allo stato della nostra normativa penale, a partire da quella codicistica, in materia ambientale, che solo di questi strumenti “repressivi” (per così dire), dispone, in un ambito dal quale, in ultima istanza, dipende la salute e la stessa vita di una società, di ognuno di noi.
Negli stessi giorni in cui veniva diffusa la notizia del nuovo procedimento penale della Procura di Taranto a carico di proprietari e dirigenti di Ilva, avente a base il reato previsto e “punito” (si fa per dire) dall’art. 674 c.p., precisamente il 25 giugno, veniva pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la Legge 4 giugno 2010, n. 96, la c.d. “Legge Comunitaria” (quella con la quale annualmente il nostro Paese si mette in regola con gli obblighi derivanti dalla produzione normativa e giurisprudenziale degli organi comunitari), che all’art. 19 prevede che “Il Governo è delegato ad adottare, entro il termine di nove mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi al fine di recepire le disposizioni della direttiva 2008/99/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, sulla tutela penale dell’ambiente”. In particolare, il Governo viene delegato a: a) introdurre tra i reati di cui alla sezione III del capo I del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, e successive modificazioni, le fattispecie criminose indicate nelle direttive di cui al comma 1; b) prevedere, nei confronti degli enti nell’interesse o a vantaggio dei quali è stato commesso uno dei reati di cui alla lettera a), adeguate e proporzionate sanzioni amministrative pecuniarie, di confisca, di pubblicazione della sentenza ed eventualmente anche interdittive.”
In breve, si dovrebbero, finalmente, introdurre nel nostro codice penale i “delitti contro l’ambiente” e si dovrebbe sancire la c.d. “responsabilità amministrativa delle persone giuridiche”, più precisamente delle imprese, in relazione anche a questi ultimi, ottemperando in tal modo, dopo 10 anni, prim’ancora che ad una direttiva europea, ad una legge dello Stato, la l. 300\2000, che delegava il Governo a prevedere questa fondamentale, per quanto assolutamente innovativa per l’ordinamento italiano, forma di difesa penale, ossia la diretta responsabilità da reato delle imprese, anche “in relazione alla commissione dei reati in materia di tutela dell’ambiente e del territorio” (art. 11, lett. d).
Ancora una volta, quindi, il legislatore italiano, che, di suo, notoriamente non brilla per sensibilità ambientalista, avvia un processo di riforma dell’ordinamento interno per garantire “un’efficace (ma nel caso dell’Italia è il caso di dire “una appena seria”) tutela dell’ambiente” a mezzo di “sanzioni maggiormente dissuasive per le attività che danneggiano l’ambiente”, più precisamente di “sanzioni penali in relazione a gravi violazioni delle disposizioni del diritto comunitario in materia di tutela dell’ambiente” (come afferma la direttiva 2008/99/CE su citata), solo per scongiurare l’ennesima procedura d’infrazione per violazione della normativa comunitaria.
Chi ha a cuore una difesa penale (ossia, una difesa tout – court) dell’ambiente men che caricaturale, come quella attualmente assicurata dall’ordinamento italiano, ha, comunque, ancora ben poco da sentirsi appagato e tranquillizzato; anzi, oggi più che mai dovrebbe tenere la guardia alta e seguire passo passo l’iter di redazione dei decreti legislativi da parte di un Governo, come questo, nei confronti del quale, in materia ambientale, è doverosa, più che legittima, una, particolarmente vigile, “attenzione”.
In tal senso, anzitutto si possono cogliere già segnali non proprio rassicuranti nello stesso citato testo della legge comunitaria, dacché nonostante la direttiva imponga agli Stati membri di conformarsi a sé “anteriormente al 26 dicembre 2010”, il Parlamento ha cortesemente assegnato al Governo 9 mesi “dalla data di entrata in vigore della presente legge”; in pratica, l’Esecutivo ha tempo fino all’inizio di aprile per approntare un provvedimento legislativo che, invece, dovrebbe esser adottato entro il 26 dicembre.
In ogni caso, parrebbe finalmente destinata ad esser in qualche modo attutita, se non proprio eliminata, una tra le più indigeribili “anomalie” (comunque, una tra le tante) del nostro sistema penale: quella per cui chi ruba una scatoletta di tonno in un supermercato può esser condannato a 10 anni di reclusione, e chi, invece, si limita ad appestare un’intera città con le sostanze più velenose può cavarsela con qualche decina di euro di ammenda.
Almeno in materia di tutela dell’ambiente, meno male che l’Europa c’è.

Stefano Palmisano