Quanto valgono le parole nella cura che la medicina intende prendersi del malato? E’ inutile tacere che anche oggi nei recinti della medicina supertecnologica il detto “Herbis non verbis” vale ancora e chi si occupa delle parole che i curanti e i curati si scambiano passa per un perdigiorno, uno che non va diritto al fine, la guarigione del paziente, la restituzione del suo stato. “Non fare filosofia o psicologia, pensa a risolvere i problemi” è questo che dovrebbe dirsi un buon medico. Ingiunzione che è espressione della cultura prevalente anche tra i cittadini (o assistiti) che si rivolgono ai curanti, tra i quali a volte girovagano come tra slot machine, salvo poi rimanere turbati da certe risposte e lamentarne la mancanza di sincerità.  L’ultima fatica di Sandro Spinsanti, La Cura con Parole Oneste (il Pensiero Scientifico Editore 2019 pp 116) coltiva l’importanza della parola ed in particolare della parola onesta nel difficile rapporto terapeutico. 

Il libro si sviluppa in cinque capitoli, prologo ed un epilogo. Nel primo (La medicina sotto il segno dell’inganno) si tratta degli inganni della natura e di quelli dell’uomo, non dei medici disonesti, precisa l’Autore, ma di quanti ingannano nel malinteso interesse di qualcuno. Ci sono tuttavia comportamenti davvero disonesti come quello de Il dottor Glass dello scrittore svedese Hjalmar Soderberg che fa credere al suo cliente cardiopatico che avere rapporti sessuali aggraverebbe il suo male al solo fine di accontentare la moglie a cui il marito è divenuto repellente. O ancora le menzogne formulate dal medico per autotutela: “cerca di essere sempre ambiguo nel formulare previsioni sul decorso della malattia… Sii prudente nel formulare la diagnosi, in modo da avere sempre di riserva eventuali giustificazioni in caso di errore” scriveva Macoppe, medico padovano del secolo XVIII. E persino la menzogna vestita di reticenza come la “dissimulazione onesta” per nascondere al malato le cattive notizie, in particolare quelle relative alla morte incombente. 

Un atteggiamento destinato a durare a lungo” come documenta il sociologo Marzio Barbagli in Alla fine della vita. “Morire in Italia e in altri paesi occidentali, il silenzio dei medici è ancora tenace”. 

Il dovere di informare è da facoltativo diventato mandatorio per qualsiasi procedura diagnostica o terapeutica. L’antitesi tra buon medico e medico buono non può più sussistere: “il buon medico non può essere solo competente sul versante delle scienze biomediche, ma deve esserlo in misura non minore in quello delle medical humanities.”. 

Non si può prescindere dalla constatazione che anche il malato è cambiato, non c’è più il paziente “docile e remissivo, (che) coltivava una relazione fatta di abbandono fiducioso nelle mani del medico”.

La gabbia dei segreti solitari” (cap. 2) analizza il cambiamento delle regole con l’introduzione del nuovo codice deontologico medico nel 1995 che sostituisce quello del 1978 secondo cui “una prognosi grave o infausta potesse essere tenuta nascosta al malato ma non alla famiglia”. In opere letterarie e in loro trasposizioni televisive l’autore coglie la cultura prevalente sul tema (La linea verticale di Mattia Torre, Baci scagliati altrove di Sandro Veronesi). Nonostante il cambiamento del codice deontologico e l’introduzione della legge 129 nel 2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) la cultura medica continua ad oscillare tra la “narrazione della protezione sociale” e la “narrazione culturale di autonomia-controllo”. La prima “tende a una pratica comunicativa in cui chi detiene la informazione sulla malattia – il medico e la famiglia – non le trasmette al malato” prediligendo il silenzio, l’ambiguità dei messaggi, la comunicazione indiretta. Nella seconda invece “l’individuo è sovrano: sulla vita, sul suo corpo, sulla propria identità personale: solo la persona coinvolta sa cosa è meglio per sé stessa ed è davvero capace di prendere le decisioni che la riguardano. L’autonomia e l’autodeterminazione sono valori primari e rappresentano dei diritti fondamentali di ogni essere umano. L’informazione è essenziale per poter scegliere. Per questo è necessaria una comunicazione chiara ed esplicita”. 

La protezione sociale nasconde a volte interessi inconfessabili, altre davvero pensa di fare il bene del malato come nel caso della storia narrata nel film Goodbye Lenin (Wolfang Becker, 2003) in cui alla protagonista colpita da infarto ed entrata in coma si nasconde la caduta del muro di Berlino perché al risveglio la notizia non procuri a lei, fervente comunista, un grave e pericoloso dispiacere. Così la protagonista potrà morire senza rendersi conto della fine dei suoi ideali.

La legislazione però va oltre e prevede le disposizioni anticipate di trattamento nel caso in cui non si sia in grado di esprimere la propria volontà e non si voglia che i propri familiari assistano impotenti ad una lunga morte artificiale non voluta dall’interessato. Meglio indicare un fiduciario “la persona autorizzata a dar corpo alla nostra volontà… qualcuno che parli per noi e faccia valere le nostre preferenze può essere molto più efficace di qualsiasi documento scritto, specialmente se questo non è facilmente raggiungibile”.

C’è un terzo ambito in cui abbiamo bisogno di parole oneste per dare corpo al nuovo auspicabile modello di medicina; quello del rapporto tra i cittadini e i gestori dei servizi sanitari. La mancanza di onestà risiede nel millantare servizi che non esistono”. La promessa “dalla culla alla tomba ci pensa lo Stato” non riesce più ad essere mantenuta, l’allocazione delle risorse disponibili non assicura risposte uguali per tutti e, aggiungiamo noi, per tutte le regioni allo stesso modo. 

Se il processo politico rifiuta di fornire l’emodialisi degli anziani, così da insinuare che non valga la pena salvare certe vite, l’onestà di cui abbiamo bisogno ci serve per chiarire i criteri impliciti delle nostre scelte e salvare, per quanto possibile, il tessuto dei valori senza i quali la società non si reggerebbe. In altre parole, si tratta di esplicitare la sostenibilità del sistema. A livello, invece, delle scelte che quotidianamente i cittadini possono essere indotti a fare, le parole oneste riguardano le risorse di cui possono o non possono disporre per il loro processo di cura”. In questo quarto capitolo si affronta il tema delle risorse a disposizione (servizi domiciliari, intesi in numero di accessi di operatori e di ore di servizio, presidi tecnologici garantiti ecc) che “non sono omogenee sul territorio nazionale: variano da regione a regione e, non di rado, da un’azienda sanitaria all’altra. Il rischio concreto è che il peso dell’assistenza ricada sulla famiglia, sconvolgendo equilibri e monopolizzando risorse, sia economiche che di energie vitali. Non è inconcepibile che qualche persona rinunci a misure in grado di aggiungere giorni alla propria vita, quando questo avvenisse drenando risorse, non solo economiche ma di vita stessa, dalla propria famiglia.” “Le parole oneste che invochiamo sono quelle che mettono in grado le persone di decidere il percorso di cura in modo responsabile. I tre ambiti che abbiamo evocato – quello delle reti familiari, quello delle relazioni professionali di cura e quello sociale in cui lo Stato si fa carico della fragilità di tutti i cittadini e dà risposte uniformi ai bisogni – non sono separati: si sovrappongono e si condizionano reciprocamente”.

Il titolo dell’ultimo capitolo è “Le parole difficili”, difficili “per le dinamiche che scatenano nei rapporti con i pazienti e i familiari. Ne hanno paura e le evitano. Eppure attraverso queste parole, che richiedono coraggio nel pronunciarle, passa il cambiamento di cui abbiamo bisogno nell’arte della cura”.

Si parla delle cure palliative, dell’hospice, parole che ancora non si vogliono sentire perché ad esse il malato viene affidato in fase molto avanzata e tardiva tanto da far intendere che si tratti di medicina per moribondi. Settori che invece richiedono parole oneste: ”Il nostro hospice è più simile a un reparto ospedaliero specialistico solo che invece di curare problemi cardiaci o ginecologici ci concentriamo sul controllo dei sintomi. I sintomi fisici come il dolore, l’insufficienza respiratoria o la nausea, o i problemi emotivi che accompagnano spesso una malattia grave, come l’ansia, la tristezza, il panico, e anche i problemi familiari che potrebbero insorgere quando tutti in famiglia vogliono avere il controllo della situazione e il povero paziente si sente sopraffatto”. Questo è stato un modo di convincere una persona riluttante a ricoverarsi in un hospice.

In Regione Toscana i resoconti dei percorsi assistenziali nella fase finale della vita dimostrano che l’inversione di tendenza di una realtà ancora tutta centrata sull’ospedale è di là da venire: “le cure palliative vengono attivate ancora troppo poco, tardi e male. Nel triennio in questione (2015-2017) il profilo assistenziale del paziente con malattia cronica o prognosi infausta è ancora quella dell’acuzie, con altissima probabilità nell’ultimo mese di vita di finire in pronto soccorso e di terminare in terapia intensiva. Ancora il 77% di questi pazienti non riceve cure palliative. La degenza mediana in hospice è di 7 giorni per i malati oncologici e di 5 per quelli non oncologici”.

In “Comunicare l’incertezza” si esaminano i comportamenti intorno ad una realtà tanto vera quanto occultata e che cioè la medicina (come la scienza) contiene vaste aree “grigie” ove si disvela il medico paternalista, il paziente delegante o il medico che dichiara di non sapere per scaricarsi di responsabilità. Un’incertezza che può far assumere al paziente decisioni, pur consapevoli, di partecipare a screening che potrebbero innescare catene di indagini di dubbia utilità e con probabilità variabili di effetti collaterali. “Le differenze da persona a persona possono essere molto marcate e anche per la stessa persona la volontà di sottoporsi a terapie estreme può variare nelle diverse fasi del decorso della malattia. Lo stato di avanzamento della patologia può indurre il malato a rinunciare a trattamenti dai quali si aspetta un aumento delle sue sofferenze oppure, al contrario, il malato potrebbe richiedere un intervento sperimentale che prima, in condizioni migliori, aveva escluso. Non si può assumere che ‘tutto il possibile’ sia la misura giusta per tutti”.

Un altro ambito in cui è necessario pronunciare parole difficili è quello della medicina predittiva, “La malattia che verrà (forse…)”. La genetica permette di predire le probabilità di ammalarsi di alcune patologie. Emblematica la storia narrata nel romanzo di Lisa Genova, La scelta di Katie, dove la figlia minore di una famiglia a rischio di sviluppare una malattia ereditaria decide con saggezza: “Prima pensava che scoprirsi positiva avrebbe cambiato tutto. Certo se è positiva il futuro cambierà. Ma il futuro è una fantasia. Esiste solo il presente”.

La conversazione clinica che nasce sull’orizzonte della medicina predittiva richiede una particolare prudenza, Mentre in internet un mercato senza scrupoli offre indagini genetiche a buon prezzo, millantando ideali sfere di cristallo in cui leggere il proprio futuro di salute e malattia, nel contesto della relazione seria tra professionisti e persone in cura sarà necessario porre attenzione all’impatto che tali informazioni possono avere. Più che in altre situazioni può essere appropriata una ‘spinta gentile’, che renda facile accedere alle informazioni utili e protegga da quelle futili e controproducenti”.

Sono il medico: ho sbagliato” si occupa dello spinoso tema degli errori medici introdotto da una riflessione sui “cattivi pensieri” come per esempio “l’ospedale è un luogo pericoloso per la salute ed è meglio starne lontani il più possibile”, pensiero molto diffuso nella cultura popolare ma anche nella letteratura (L’ammalatuccio di Gioachino Belli) e nella corrente contraria alla medicalizzazione della vita che ha il suo epigono negli anni ’70 in Ivan Illich (Nemesi medica. L’espropriazione della salute). “Oggi solo qualche eccentrico – soprattutto anziani, dei quali si può mettere in dubbio la completa lucidità nelle scelte – continua a rifiutare di ricorrere all’aiuto che offre la medicina organizzata con le sue istituzioni. In genere invece la popolazione fa ricorso anche troppo volentieri all’ospedale”.

 E questo “troppo” renderebbe necessario risvegliare l’opinione pubblica e trasmettere alcune convinzioni che sono un po’ controcorrente, quali alcune riportate da Richard Smith in un suo articolo del British Medical Journal“la morte è inevitabile”, “gli ospedali sono luoghi pericolosi”, “gli screening producono anche risultati falsi-negativi e falsi-positivi”, “ci sono modi migliori di spendere i soldi che destinarli ad acquistare tecnologia medico-sanitaria”. 

Un secondo cattivo pensiero riguarda gli operatori; “Per conoscere i pericoli che si incontrano in quel contesto, o in genere nel corso di qualsiasi prestazione sanitaria che si possa ricevere dentro e fuori l’ospedale, non ci si può fidare dei sanitari, perchè questi tendono a nascondere gli errori”. Sono diversi i meccanismi che scattano di fronte ad un errore. Tra questi l’esagerazione della propria fallibilità da parte dei medici. Ma è vero anche che si vedono rivendicazioni di segno opposto “che consistono nell’insinuare che ci siano stati errori dei sanitari anche quando il loro comportamento professionale è stato ineccepibile”.

Chiude il capitolo un interessantissimo paragrafo sugli “stranieri morali”, che non c’entrano nulla con gli immigrati anche se potrebbero sovrapporsi ad essi, riguardando la necessità di affrontare le divergenze etiche che sono già molte tra i nativi. La parola difficile qui è la diversità espressa per lo più dalla locuzione “non ti capisco”. Il conflitto riguarda il paziente nei riguardi del medico, il medico contro l’infermiere, ma in medicina il conflitto ha riguardato il campo della bioetica che Spinsanti chiama ironicamente ma efficacemente “biorissa”. La diversità viene affrontata in modi differenti: con la polemica, con la tolleranza, con la regolamentazione. “La quarta opzione è quella che vede nell’etica una possibilità di gestione delle differenze morali” “Nell’ambito dei comportamenti che hanno a che fare con le decisioni di procreazione, di cure sanitarie e di morte, la bioetica è nata proprio con la finalità di mettere un certo ordine e soprattutto di creare una specie di lingua franca, per poter parlare tra ‘stranieri morali’“. “La sfida a cui la bioetica ha immaginato di poter dare una risposta è quella di elaborare un’etica per le situazioni problematiche che possa parlare con autorità razionale alle più diverse concezioni morali; un ponte tra ‘stranieri morali’“. “La gestione delle differenze si può sviluppare: quando i mondi morali sono diversi, possiamo parlare con l’altro, facendo delle divergenze l’argomento di una conversazione”. E citando Theodore Zeldin “Considero particolarmente importanti le conversazioni che si collocano al confine tra ciò che capisco e ciò che mi sfugge, incontri con le persone diverse da me. Con un mondo  morale diverso dal mio, invece di combatterlo pregiudizialmente, io ci posso parlare e la prima cosa che posso guadagnare da questa conversazione è un beneficio per me stesso, perché allargo il mio mondo morale” (T. Zeldin La conversazione Di come i discorsi possono cambiare la vita) E conclude “Se c’è un luogo in cui le parole devono rinunciare a essere armi contundenti e diventare veicolo di civiltà è proprio questo; là dove la corporeità ci costringe a scoprire la fragilità e grida aiuto”.

Ha ragione Spinsanti quando dice che le parole sono di per sé ambivalenti, ma quando sono malate sono il segno del degrado della nostra vita sociale. “Le parole che auspichiamo guariscono non meno di qualsiasi medicamento: i mali del corpo, ma anche quelli della nostra immagine ferita. A cominciare da quando qualsiasi rottura dell’equilibrio nel quale ci sentiamo a casa nostra ci prospetta l’impietosa verità del nostro essere mortali”.

Maurizio Portaluri

10 gennaio 2020